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La promessa di Arnault: «Tiffany brillerà di più»

L'unico marchio del lusso americano è appena passato a Lvmh per 15 miliardi di euro e il colosso francese diventa leader mondiale nei gioielli

di Giulia Crivelli

Il primo calendario dell'avvento creato da Tiffany (alto 1,22 metri)

3' di lettura

Se quel che è appena successo a Tiffany fosse capitato a un marchio italiano del lusso con una storia tanto lunga (182 anni), in molti avrebbero iniziato a recitare il trito mantra della perdita di una parte del patrimonio nazionale. In anni recenti lo abbiamo visto spesso: grandi gruppi stranieri hanno comprato marchi storici del made in Italy. In alcuni casi li hanno salvati o rilanciati, in altri non ci sono riusciti. Guardando oltre la moda e il lusso, il fenomeno è accaduto anche in Germania, Regno Unito, Spagna, Giappone. Con reazioni non meno indignate, almeno a caldo.

L’unico Paese nel quale si mantiene una pragmatica calma di fronte a importanti acquisizioni portate avanti da colossi stranieri sono gli Stati Uniti. Una punta di dispiacere c’è sicuramente, vedendo cambiare nazionalità – sulla carta – a un simbolo dello stile di vita e dell’economia americana. Ma nessuno si straccia le vesti o invoca cavalieri bianchi o interventi di soggetti che poco sanno di globalizzazione e mercato del lusso (leggi, politici di ogni grado e livello). Fatto sta che a poco più di un mese dalle prime indiscrezioni (si veda Il Sole 24 Ore del 29 ottobre) il 25 novembre Lvmh ha aggiunto un record ai numerosi che già deteneva. Il più grande gruppo del lusso al mondo, fondato da Bernard Arnault, che oggi è l’uomo più ricco di Francia, ha acquisito Tiffany per 16,2 miliardi di dollari (14,7 miliardi di euro), la più grande operazione di sempre nel settore dei beni di lusso personali, per di più all cash. L’approvazione definitiva è attesa entro la prima metà del 2020, dopo il voto degli azionisti (che hanno spuntato 135 dollari per azione contro il 120 offerti inizialmente) e delle autorità di Borsa. Tiffany è un colosso da 4,4 miliardi di dollari di ricavi, con 321 negozi nel mondo, 14.200 dipendentI e un margine operativo del 17,8% (sicuramente migliorabile).

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E ora? Durante la conference call seguita all’annuncio ufficiale (Lvmh è quotato a Parigi, Tiffany a New York), il chief financial officer del gruppo francese Jean-Jacques Guiony ha elencato solo scenari positivi: Lvmh potrà far crescere la percentuale di vendite in Europa di Tiffany, Lvmh potrà d’altro canto ribilanciare il portafoglio mercati; Lvmh diventerà ancora più competitivo nel settore della gioielleria. Last but not least, non ci saranno ritocchi al listino: «I bracciali Tiffany in argento da poche centinaia di euro? Sono l’equivalente del rossetto Dior, un modo per avvicinare i clienti a un brand», ha detto Guiony.

Nei prossimi mesi e anni vedremo se tutto procederà secondo i piani di Lvmh: l’ottimismo della ragione d’obbligo. Il colosso francese ha comprato molti marchi storici italiani e li ha sempre rafforzati a livello globale potenziando allo stesso tempo le strutture produttive locali. Il giorno dell’acquisizione, Bernard Arnault ha rilasciato un’intervista esclusiva a Le Figaro, principale quotidiano francese. Ha detto – tra le altre cose – che il legame tra Tiffany e la Francia è sempre stato forte e che «Lvmh aiuterà Tiffany ad ampliare la gamma di prodotti, a migliorare l’allure (sic) delle sue boutique e ad adottare una comunicazione più puntuale. Partiremo dalla storia di Tiffany – ha assicurato Arnault – puntando ad accrescerne la modernità e lo stile».

Sull’ampliamento della gamma, Tiffany si era già mossa negli ultimi anni, sotto la guida dell’amministratore delegato Alessandro Bogliolo, manager italiano che aveva lavorato per Bulgari e Sephora, due dei 75 marchi del portafoglio del gruppo francese. Verrà ampliata la collezione di gioielli da uomo e i prodotti speciali per il Natale possono servire da test per un rafforzamento degli oggetti per la casa. Anche se il core business resterà la gioielleria da donna: con l’acquiszione di Tiffany, Lvmh diventa il primo player mondiale nei gioielli (oltre a Bulgari, possiede le maison Chaumet e Fred). A meno di contromosse di Richemont (che ha in portafoglio, tra gli altri, Cartier e Van Cleef&Arpels) o di Kering, che controlla Pomellato, Arnault – oggi terzo uomo più ricco al mondo dopo Bill Gates e Jeff Bezos – si conferma un moderno Re Mida e non è detto che il suo appetito sia placato. Maison del lusso in cerca di un porto sicuro nell’epoca agitata della post-globalizzazione ce ne sono ancora tante.

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