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La settimana di Borsa
tutta colpa del dollaro

di Walter Riolfi

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31 ottobre 2009

La cosa brutta nel pesante ribasso di ieri è l'apparente insensibilità di Wall Street alla buona notizia di un Pil Usa cresciuto oltre le attese. La cosa meno brutta è che questa ondata ribassista è interamente guidata dall'apprezzamento del dollaro sulle principali valute. E questo apprezzamento ha spiegazioni essenzialmente tecniche: la chiusura delle posizioni di carry trade con le quali gli investitori si finanziano in una valuta a bassissimi tassi d'interesse (il dollaro) per comprare attività a maggior rischio e a maggior ritorno, come bond, materie prime e azioni. Si può osservare che tutto il rialzo delle borse dopo i minimi di marzo, così come quello delle principali commodity, sia stato scandito passo passo da un comparabile ribasso della valuta americana: segno che la speculazione ha avuto un ruolo preponderante nei rialzi dei mercati finanziari. E del resto, negli ultimi 8 mesi si sono viste altre 4 correzioni a Wall Street: tra giugno e luglio (-7,1%), a metà agosto (-3,3%), tra agosto e settembre (-3,5%) e a fine settembre (-4,3%). Nell'attuale, l'S&P ha perso il 5,6% rispetto ai massimi del 20 ottobre: massimi raggiunti sull'onda dell'eccessivo ottimismo generato dalle trimestrali, senza che dall'economia fossero arrivati segnali tali da giustificare un rialzo che aveva superato il 60 per cento.
Nessuno può dire fino a che punto si spingerà questa correzione (quota mille dell'indice S&P rispetto ai 1.036 punti di ieri, come suggerivano alcuni analisti tecnici, oppure un livello ancora più basso?). Ma a parte una minoranza di gestori e di economisti, che fin dall'inizio hanno ritenuto il rialzo una «trappola dell'Orso», l'opinione prevalente è che le borse debbano semplicemente correggere gli eccessi degli ultimi mesi. E non è un caso che a guidare la discesa dei mercati siano stati, oltre al comportamento del dollaro, alcuni allarmi lanciati dai maggiori analisti sull'insostenibilità delle quotazioni raggiunte dai titoli bancari, cresciuti mediamente fino al 182% negli Usa e al 167% in Europa.
Ma il più preoccupante tra gli eccessi è stato vedere come le borse siano andate ben oltre le indicazioni che provenivano dall'economia e abbiano scontato, contro ogni evidenza, una ripresa a «V» che non sembra essere nelle cose. Prendiamo il dato sul Pil Usa del terzo trimestre. Quel 3,5% di crescita (3,2% nelle stime) è il risultato di una spesa per investimenti residenziali cresciuta grazie agli incentivi sull'acquisto della prima casa e a quelli per la sostituzione di un'automobile. Senza questi il Pil sarebbe rimasto a zero. E considerando che questi incentivi sono temporanei, e che nell'ultimo mese sia la vendita di case che quella di auto hanno subito una flessione, l'economia Usa dovrà trovare altri puntelli di crescita nei prossimi trimestri. Forse nell'attività manifatturiera, visto che il 48% delle imprese sondate da PriceWaterhouseCoopers (erano appena il 43% tre mesi fa) si sono dette ottimiste sul futuro. Ma l'industria pesa ormai poco nella formazione del Pil e quel che conta (oltre il 65%) sono i consumi: proprio quelli diminuiti a settembre dello 0,5%, come hanno segnalato ieri i dati ufficiali.
Tuttavia anche la presente correzione dei mercati, per quanto propiziata dalla discreta quantità di vendite allo scoperto accumulatesi nelle passate settimane ed alimentata dagli affondi ribassisti di questi giorni, non dovrebbe protrarsi a lungo. Essenzialmente per due motivi. Primo, perché la Fed (e pure le banche centrali europee) non sono prossime a una stretta monetaria. Secondo perché gli utili aziendali si stanno rivelando nettamente migliori delle attese (l'81% delle società ha fatto meglio del consenso) al punto che gli analisti stanno rivedendo al rialzo pure le stime del quarto trimestre (+205%).
In settimana l'S&P ha perso il 4% (-5,1% il Nasdaq) e lo Stoxx il 3,3% (-5,8% Milano, -5,7% Francoforte, -5,3% Parigi, -3,8% Londra).

31 ottobre 2009
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