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ANALISI / Fortugno, una sentenza che non fa piena giustizia

di Roberto Galullo

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2 FEBBRAIO 2009

Omicidio Fortugno, egastolo a mandanti ed esecutori

Condannare, spesso, non vuol dire fare giustizia piena. In Calabria, poi, è ancora più difficile.
La sentenza che ha portato all'ergastolo di mandanti ed esecutori dell'omicidio del vicepresidente del consiglio regionale, Francesco Fortugno, ne è la piena rappresentazione. Ha il merito di fare luce su alcuni aspetti ma giocoforza lascia nell'ombra la gran parte delle trame politiche e mafiose che hanno portato un politico calabrese alla morte violenta.

Senza entrare nel merito delle condanne le sentenze vanno rispettate e i giudici anche, soprattutto dopo gli insulti dei familiari contro il loro operato che suonano come una chiara minaccia – è lecito porsi degli interrogativi che vadano oltre le grida di giubilo levatisi ieri indistintamente: da destra a sinistra passando per il centro degli schieramenti politici regionali e nazionali.

Unica voce, stonata e fuori dal coro: quella di Angela Napoli, membro della Commissione parlamentare antimafia, la quale ha dichiarato che l'omicidio non è stato né politico né mafioso. E cos è stato allora?

L'interrogativo – che sembra capzioso – in realtà non lo è. Il fatto stesso che per Alessandro e Giuseppe Marcianò – riconosciuti dalla Corte di Assise di Locri come esecutori del delitto e per questo condannati all'ergastolo – siano stati assolti dall'accusa di associazione mafiosa, avalla molti dubbi.

Com è infatti possibile credere che un omicidio del genere non sia stato un omicidio mafioso? Un omicidio di questo stampo non può non essere mafioso ed infatti nel corso della requisitoria del 1° dicembre 2008 il Pm Marco Colamonici ha ricordato l'impasto tra politica e ‘ndrangheta che portarono all'uccisione di Fortugno. «Le cosche puntavano su Domenico Crea – dichiarerà Colamonici – per mettere le mani sulla sanità, la Fiat della Calabria, perché produce reddito, clientela e occupazione. Ma il delitto è anche un preciso messaggio al Governatore Loiero». Colamonici non ha spiegato – peccato - perché era un messaggio a Loiero (ovviamente, ammesso e non concesso che sia così).

Strano, molto strano che il Governatore ieri non lo abbia ricordato, preferendo invece puntare sulla giustizia fatta e sulla regione degli onesti che trova forza da questa sentenza.
Ed allora se tale omicidio è mafioso – e tutto fa pensare che un omicidio di questo stampo si decide a settembre, nel corso delle riunioni delle cosche che si svolgono intorno al Santuario aspromontano di Polsi – perché i livelli mafiosi non sono stati colpiti. Perché le connivenze politiche – apparte il riferimento a Domenico Crea subentrato in consiglio a Fortugno – non sono state neppure sfiorate?

Domandarselo è legittimo e porsi dei dubbi anche. A partire dal fatto che l'omicidio sembrerebbe stato organizzato all'ultimo momento, senza una particolare cura, quasi a coprire interessi politici e/o affaristici che non potevano attendere un livello di perfezionamento. Il killer, Salvatore Ritorto, come ha descritto la perizia del professor Massimo Rizzo, «ha sparato cinque colpi a caso, dimostrando chiaramente mancanza di professionalità". Utilizzando, oltretutto, una pistola "sporca", che aveva già sparato nella Locride due volte. "Fortugno – ricorderà Colamonici – è stato sfortunato. E' morto per caso. Un solo colpo gli ha perforato l'aorta».
Quali interessi si doveva tutelare con un omicidio o un avvertimento andato oltre le previsioni? La risposta è ancora nel mondo della sanità e delle connivenze politiche che però – come ha ricordato anche la vedova Fortugno, Maria Grazia Laganà, parlamentare del Pd esclusa dall'attuale Commissione parlamentare antimafia verosimilmente per incidenti di percorso in cui è caduto il fratello, intento a dialogare con il sindaco di Gioia Tauro, indagato per concorso in associazione mafiosa, attraverso le utenze dell'onorevole sorella alla quale fissava anche appuntamenti con l'indagato stesso – non sono emerse.

Un mondo sanitario al quale oltretutto, le famiglie Laganà e Fortugno non erano certo estranee, per essere il morto primario a Locri e la vedova dirigente della stessa Asl, oltretutto indagata per l'acquisto di alcune forniture di presidi sanitari. Un mondo paludoso nel quale – nel corso del processo – l'avvocato Spanti, ex commissario dell'Asl di Locri, ha ricordato che aveva ricevuto pressioni dall'ex assessore regionale Pasquale Tripodi e dallo stesso Fortugno per un concorso da primario di radiologia. «Mi spingevano a farlo – dichiarerà Spanti - mentre l'assessorato regionale alla Sanità mi diffidava». Vero o non vero, non è dato di sapere e comunque mette casomai in luce un certo modo di fare politica.
Strano anche che nessuno – nel corso delle requisitorie o nelle arringhe – abbia sentito il dovere di richiamare quanto dichiarato alla Procura di Salerno dall'ex pm di Catanzaro Luigi De Magistris (si veda il Sole-24 Ore del 17 dicembre 2008). «Decisi di mantenere una residua competenza – scrive De Magistris in una relazione inviata alla sua Procura e alla Procura nazionale antimafia – perché il consigliere Fortugno paventava eventuali responsabilità nell'ambito della Giunta regionale, in particolare dell'assessorato alla Sanità, soprattutto con riguardo il profilo della mancata revoca dell'incarico di commissario straordinario presso l'Asl di Locri di Giovanni Filocamo (ex assessore alla Sanità, ndr)».

  CONTINUA ...»

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