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Biblioteche di fango. Reportage dall'Etiopia

Reportage di Fabio Artoni

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15 maggio 2008
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Houghton Mifflin, editore americano, pubblica ottimi libri didattici. Ad Addis Abeba i suoi libri sono ovunque: nelle belle librerie alla moda, nei popolari minicontainer che vendono libri usati, nelle scuole e nelle biblioteche. Carta patinata, colorata, grafica vivace. Spesso arredano anche i muri di una casa etiopica.
Le case della gente comune di Etiopia, negli immensi altipiani di questo paese, sono capanne a volta, casette di paglia con un grande palo al centro o case di cicca: mattoni di fango e paglia compressi e messi uno sull'altro. Come tetto ancora paglia, o lamiera. Una lampadina o una lampada a gasolio, a seconda della sorte. I muri parlano: fogli di giornale, poster dell'Arsenal, del Manchester, riproduzioni di Gesù generalmente sanguinanti, Madonne azzurrine e Cristiano Ronaldo. Spesso anche pagine di libri scolastici. In inglese. Come quelli di Houghton Mifflin.

Rossi e azzurri pastello che aprono finestre di colore in case troppo povere per essere dipinte. Mi capitò di vedere su una parete pagine scritte fitte fitte, con piccoli disegnini qua e là. Erano pezzi di Encyclopedia Britannica. La casa era quella di una donna di Zway, dove ho vissuto per alcuni anni, una cittadina tra acacie e polvere a sud di Addis Abeba, in piena Rift Valley, sulla strada per il Kenya. Una casa povera di una donna povera. C'ero andato per la cerimonia del caffè e mi trovai a leggere i muri.

Strano destino quello di tanti libri donati e arrivati in Etiopia a Gibuti, via container, in questo paese dove la gente ricicla, rivende, riaggiusta tutto. Le bottiglie di plastica sono qualche volta l'unico modo di portarsi a casa un po' di acqua potabile. Le lattine di salsa Merti l'unità di riferimento di una misura di granaglie o zucchero al mercato. Le medicine nei blister il rimedio magico dei frengy (i bianchi) per qualsiasi malattia. La fine di molti libri, esauriti i suoi percorsi di possibili utilità, è di finire appiccicati ai muri delle case. Oppure di morire d'oblio in una biblioteca scolastica.

Il libraio di Zway. A Zway il libraio Eshete ha una sua libreria: uno stanzino di quattro metri per quattro dove arriva molto di quel che si stampa in Etiopia. Eshete è un oromo, l'etnia più diffusa il Paese ma che non ha mai governato. Non è il centro della città una libreria. La vita è il mercato, la strada, il pozzo, i venditori ambulanti, i fabbri e i sarti per le strade… Qui però c'è un bel viavai, ed Eshete non se la passa male. Da lui si trovano testi introvabili altrove.

Quando con i missionari salesiani di Zway e Mohamed, amico e insegnante di chimica nella scuola salesiana, pensammo che sarebbe stato bello fare una piccola biblioteca per la gente e gli studenti, Eshete divenne la nostra longa manus ad Addis Abeba. Nei mesi successivi lo avremmo spesso aspettato il lunedì sera a Zway, saltare giù da un autobus fumoso e sgangherato con il nostro rotolo di giornali e libri freschi comprati nella capitale. Da allora e per un bel pezzo, che si trasportassero teste di motori e radiatori, cotone e stoffe, telai e sacchi di sorgo, anche il cassone della nostra macchina non fece mai un viaggio nella capitale a vuoto.

La produzione libraria in lingua locale è di bassa qualità ma molto ricca. Nelle grandi città si trovano ovunque testi di fiction, poesia, cucina, storia, religione ed esoterismo… Vanno forte i libri d'amore, sulla scia di "Feker eske mekaber" ("Amore fino al cimitero", letteralmente) pilastro della moderna letteratura in amarico. Ma anche detective stories, libri su come avere successo in dieci mosse, manuali per fare le treccine e per coltivare i pomodori. "Where there is no Doctor" in amarico è un best seller. "Pinocchio" (rinominato Afimcho, naso) è ormai un po' datato anche da queste parti. Harry Potter non sembra vada per la maggiore, ma si stampa. Una Ong ha addirittura fatto tradurre "Delitto e Castigo". E poi libri di meccanica, di falegnameria, degli antichi mestieri. Un po' di tutto e a poco: qualche decina di birr, la moneta locale.

Ma fuori dalle città, e sempre più via via che si entra nelle zone rurali, lo stimolo e la possibilità della lettura come piacere scompare. Il solo mercato è quello dei libri "utili". Quelli scolastici, che servono a passare un esame. Testi di geografia con centinaia di pagine senza neppure una foto. Le alpi piatte come la tundra siberiana. Nozionismo per catturare un diploma che apre le porte dell'università.

A fine giornata, seduti all'ombra condividendo un piatto di engera (il pane locale, spugnoso e acido) sui gradini della libreria di Eshete, incontravamo i ragazzi e gli studenti. Andavano o tornavano da scuola, uniformi colorate e sandali di gomma ricavati dai copertoni ai piedi. I temariuocc, gli studenti, parlavano sempre del "plasma". Nel loro modo ammiccante, di sopracciglia che annuiscono, maledicevano il "plasma".

Cultura di carta e tv al plasma. Il plasma è un'invenzione del governo che vorrebbe livellare in alto la formazione con l'apporto della tecnologia. In molte scuole governative e dove arriva l'elettricità si è installata una parabola, i router in una capanna di lamiera e uno schermo al plasma ultimo modello in classe. In una cornice di fango e pixel digitali, a orari fissi una stazione di produzione trasmette via satellite lezioni di fisica, biologia, chimica, matematica in inglese. L'insegnante è ridotto a bidello tecnologico, mentre i centoventi studenti annaspano e lottano per capire qualche frase. L'illusione che la tecnologia sia la via alla formazione si spegne in montagne di ore uomo buttate davanti a uno schermo.

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