Sono in crisi i giornali o il giornalismo? Entrambi. O forse nessuno dei due.
Non passa giorno, da almeno un anno e mezzo, senza che qualcuno, soprattutto negli Stati Uniti, citi nuove ricerche sul calo dei lettori dei quotidiani e della carta stampata in generale o sulla crisi della pubblicità, che per decenni è stata la principale fonte di introiti delle case editrici, ma che negli ultimi tre anni – spiegava ieri sul Chicago Tribune, Kathleen Parker – è calata in valore, negli Usa, di 20 miliardi di dollari. Per non parlare delle accuse allo strapotere di internet, che avrebbe abbassato la qualità del giornalismo e indotto tutti a pensare che l'informazione debba essere continua, disponibile in tempo reale e rigorosamente gratis.
L'ultimo dato in ordine di tempo risale a una settimana fa, quando l'Audit Bureau of Circulation ha annunciato che le vendite dei circa 400 quotidiani americani monitorati nel periodo aprile-settembre 2009 sono calate del 10,6% rispetto allo stesso semestre del 2008, raggiungendo i 30,4 milioni di copie. Nel semestre precedente il calo era stato "solo" del 7,4 per cento. Impressionante il crollo di Usa Today, primo quotidiano americano per diffusione (-17% a 1,9 milioni di copie), che ha dovuto lasciare il posto al Wall Street Journal, le cui vendite sono salite dello 0,6%, superando i due milioni di copie. Un successo che non ha impedito al quotidiano economico-finanziario più famoso al mondo di annunciare, proprio ieri, la chiusura della sede di Boston, che lascerà disoccupati nove professionisti, tra i quali un famoso docente di giornalismo alla Boston University.
Tutti gli editori, da una parte e dall'altra dell'Atlantico, hanno reagito alla crisi – che è specifica al loro settore ma è ovviamente anche legata alla recessione globale – tagliando i costi: il personale è stato ridotto, i manager hanno cercato di recuperare efficienza riducendo i formati di stampa, tagliando le edizioni del week-end, chiudendo le sedi all'estero, tentando di inseguire gli utenti del web dando spazio, sui rispettivi siti, ai contributi dei lettori, a forum e blog, a canali su Facebook e Twitter. Per non parlare, naturalmente, dell'ipotesi fatta dal magnate Rupert Murdoch, che nell'agosto scorso ha detto quello che in molti avevano osato solo pensare: l'informazione online deve essere pagata esattamente come quella su carta, perché produrla ha un costo che va recuperato. Ma l'equazione potrebbe non essere così semplice.
Per il mondo del giornalismo – forse più ingessato e autoreferenziale di molti altri, in Europa ma persino negli Stati Uniti – reagire alla crisi di vendite e agli assalti del citizen journalism, quello dei blog e dei social network, si sta rivelando molto difficile.
Tanto da spingere Arthur Sulzberger jr., presidente della New York Times Company, nel giorno della pubblicazione dei dati dell'Audit Bureau of Circulation, a paragonare la carta stampata al Titanic. Sulzberger non è il primo a tirare in ballo lo sfortunato transatlantico affondato nel 1912, mentre nei saloni di prima classe si continuava a ballare e mangiare. Su siti dedicati al futuro del giornalismo, sempre in America, c'è chi ha scritto che tagliare il numero di pagine o di edizioni (il magazine Fortune è passato da 25 a 18 numeri annuali, Time e Newsweek hanno decimato gli staff) o rivedere la grafica o il formato - come farà il Wall Street Journal Europe a partire dal 17 novembre - è «come spostare i mobili all'interno del Titanic», senza modificare la rotta di collisione con l'iceberg.
Ma c'è anche chi, come Slate.com (uno dei più visitati siti di informazione online), in un articolo pubblicato il 28 ottobre, intitolato "Newpapers aren't doing as badly as you think" (i giornali non vanno poi così male come si pensa); o l'imprenditore Alex Jones, rappresentante della quarta generazione di una famiglia di editori e fresco autore del saggio "Losing the News", vede il bicchiere mezzo pieno. L'importante, come sottolineava proprio ieri Jeff Jarvis, autore del saggio "What would Google do?", sul blog dedicato alla multimedialità del britannico Guardian, è che i giornalisti e gli editori continuino a credere nel valore dell'informazione di qualità e allo stesso tempo del cambiamento, una parola che dovrebbe essere il secondo abito mentale del giornalista, dopo la curiosità. Provare nuovi formati, abbracciare le innovazioni grafiche sia per le versioni cartacee, sia per quelle su internet, aprirsi ai social network senza farsene intimidire, non cedere alla tentazione di chiedere sussidi statali. Come ha fatto negli Stati Uniti, scandalizzando tutti, l'ex direttore del Washingotn Post.
Anche i quotidiani italiani stanno reagendo. E forse questa crisi potrebbe essere la scossa di cui l'editoria del nostro paese aveva bisogno per rinnovarsi.