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La triste parabola dell'Irlanda
La "Tigre Celtica" perde i figli

di Nicol Degli Innocenti

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3 dicembre 2010
Dublino. Proteste per la crisi occupazionale che ha colpito l'Irlanda. Nov 6, 2009 (AFP)
Dall'adesione all'euro non si torna indietro

I "figli della tigre" se ne stanno andando. I giovani irlandesi, cresciuti al sole del boom economico, abituati alla luce calda del benessere, sono i più sconcertati dall'ombra scura che la crisi ha fatto scendere sull'isola. Il gelo della recessione ha colpito loro più di tutti: la disoccupazione è raddoppiata al 12,5%, ma il 90% dei posti di lavoro perduti si è concentrato nella fascia di età sotto i 30 anni. Per questo l'Irlanda, per quindici anni calamita d'Europa, autoproclamata Tigre celtica che ha accolto stranieri da paesi vicini e lontani offrendo la certezza di un lavoro, oggi è tornata a essere un paese di emigranti in cerca di impiego.

Quest'anno per la prima volta il numero di irlandesi che hanno deciso di emigrare ha superato il numero degli immigrati. Le pagine più tristi della dolorosa storia d'Irlanda sembrano riscriversi da sole. Nell'arco di 12 mesi, 40mila irlandesi sono partiti alla ricerca di una nuova vita. L'anno prima erano stati solo 7.800. Le mete tradizionali, Gran Bretagna e Stati Uniti, sono ora trascurate perché colpite dalla crisi. Il boom delle partenze è verso Canada e Australia, paesi altrettanto anglofoni ma ora più stabili e quindi più invitanti.

«È difficile esagerare il senso di shock che ha colpito le persone come me, figli della Tigre celtica che non avevamo mai vissuto tempi difficili e davamo per scontata la nostra ricchezza», racconta Rachel Early, trent'anni, web designer licenziata a gennaio. «Io dopo qualche mese - aggiunge - ho trovato un altro lavoro nel digital marketing, ma tanti amici non hanno avuto la stessa fortuna. Chi non è già andato all'estero sta pensando di farlo». Anche Shane McGlynn, ex banchiere, è rimasto solo perché è riuscito a riciclarsi come importatore di tessuti di alpaca dal Peru: «La situazione - racconta - era insostenibile, una bolla che doveva per forza scoppiare. Troppa ostentazione, troppe persone che vivevano oltre le loro possibilità, una vita fasulla a credito». Per chi resta, l'Irlanda in crisi è più tetra e meno ospitale, racconta Armstrong Birhiray, arrivato dalla Nigeria nel 1999 e fino a sei mesi fa felicemente impiegato come tecnico di laboratorio: «Da quando sono stato licenziato ho cercato lavoro senza trovarlo. Ora sarò costretto a fare il tassista, come altri duemila nigeriani qui a Dublino. Il problema è che la crisi ha incattivito la gente, che ora accusa gli stranieri di rubare il lavoro agli irlandesi, con un'ostilità che prima non c'era e che rende la vita più difficile».

Anche gli ottimisti ammettono che il 2010 non promette miglioramenti improvvisi: troppo grave lo shock immobiliare dopo lo scoppio della bolla, troppo pesanti i sacrifici richiesti ai contribuenti, troppo profonda la crisi dei consumi. I pessimisti, che in Irlanda abbondano, possono elencare ragioni convincenti per giustificare le loro fosche previsioni, a partire dalle difficoltà irrisolte del sistema bancario. Resta la possibilità che il governo debba rimpiangere la solenne promessa di garantire tutti i depositi bancari: 400 miliardi di euro, il doppio del Pil. Un'altra possibilità, più concreta, è che Dublino debba nazionalizzare un'altra banca dopo Anglo-Irish Bank e forse più di una. Restano mille dubbi sull'efficacia di Nama, la "bad bank" creata dal Governo per assorbire i crediti inesigibili e gli asset a rischio. «Le banche irlandesi - avverte Morgan Kelly, professore di economia all'University College di Dublino - restano zombie e rischiano di essere troppo grandi per essere salvate. Il dubbio ora è se le banche travolgeranno lo Stato, costringendo entità esterne come l'Fmi o la Ue a intervenire».

L'Irlanda, primo paese dell'Eurozona a entrare in recessione, è ancora in crisi. Tecnicamente l'economia è uscita dalla recessione, dato che nel terzo trimestre il Pil è cresciuto dello 0,3%, ma è pressoché certo il ritorno in territorio negativo nel quarto trimestre. Su base annua il calo del Pil è del 7,5 per cento. Inoltre nel caso dell'Irlanda il dato più significativo è il prodotto nazionale lordo (Pnl), che esclude l'apporto delle multinazionali e che nel terzo trimestre è sceso dell'1,4%, accelerando il declino rispetto al -0,5% registrato nel secondo. Se le multinazionali, specie quelle in settori anti-ciclici come il farmaceutico, vanno bene, le imprese locali continuano ad annaspare, dunque.

Resta però il fatto che la depressione è stata evitata. Le ragioni per essere ottimisti sono soprattutto due. Il governo ha dimostrato di sapere gestire la crisi, tracciando il percorso per uscirne e soprattutto mantenendo la rotta con decisione. Seguendo il saggio principio che quando si parla di rating internazionali non basta agire ma bisogna anche far vedere che si agisce, Dublino ha sbandierato la sua determinazione. «Non siamo la Grecia» è stato il messaggio ripetuto fino alla nausea. Quindi decisioni difficili, pugno di ferro con i sindacati, niente compromessi. La finanziaria di dicembre, la terza in un anno, ha stabilito tagli alla spesa pubblica di 4 miliardi di euro per riuscire a contenere il deficit sotto il 12,5% del Pil e ha imposto supertasse sui ricchi. Però il ministro delle Finanze, Brian Lenihan, ha deciso di non alzare l'imposta societaria del 12,5%, mandando un chiaro messaggio agli investitori: l'Irlanda resta "open for business".

  CONTINUA ...»

3 dicembre 2010
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