L'Irlanda, la Grecia, forse la Spagna. E poi chissà... Per le difficoltà di alcune economie, Eurolandia sembra lanciare sinistri scricchiolii, soprattutto alle orecchie degli economisti di scuola americana, ai quali l'esistenza dell'Unione monetaria, e a volte quella della stessa Unione Europea, sembra impossibile come il volo di un calabrone (che però vola, eccome!).

Non si può negare che la situazione abbia una sua drammaticità: i rendimenti dei titoli di Stato dei singoli paesi si sono divaricati sempre più - mostrando, però, anche l'insospettabile resistenza dell'Unione; mentre le parole dei politici non facilitano la situazione. Il culmine si è forse raggiunto quando il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, ha escluso ogni aiuto ad Atene per le sue difficoltà di bilancio.
È una coincidenza curiosa, allora, che la Banca centrale europea abbia appena pubblicato uno studio di Phoebus Athanassiou («Withdrawal and expulsion from the Eu and Emu. Some reflections») sulla possibilità che un paese si distacchi o venga espulso dall'Unione Europea e da quella monetaria. È un'eventualità già emersa in passato: nel 1975 la Gran Bretagna minacciò di ritirarsi, o nel 1982 quando la Groenlandia (per quanto non sia uno Stato) si è effettivamente sganciata dalla Cee. L'entrata in vigore, il 1° dicembre, del Trattato di Lisbona, ha introdotto nell'Unione Europea la possibilità giuridica della secessione unilaterale (quella concordata è ammessa sempre, persino all'interno degli Stati Uniti...).

Il lavoro non esamina l'aspetto politico del ritiro di un paese membro, e si sofferma solo brevemente sui costi economici dell'uscita di un'economia dall'Unione monetaria: occorrerebbe, spiega, «la creazione di una nuova moneta, o la reintroduzione della vecchia; il rimborso della banca centrale del paese che si ritira del contributo al capitale della Bce e delle riserve valutarie conferite all'eurosistema; e il trasferimento della piena sovranità monetaria alla Banca centrale nazionale, con tutte le difficoltà pratiche e le incertezze legali che questo comporterebbe». Si pensi solo ai contratti espressi in euro: gli obblighi dovrebbero essere adempiuti nella moneta comune o convertiti nella nuova valuta nazionale?

Il costo maggiore deriverebbe però dal fatto, non sempre evidente, che «un ritiro dall'Unione monetaria sarebbe legalmente impossibile senza una parallela secessione dall'Unione Europea». Le rilevanti deroghe stabilite, alla firma del trattato di Maastricht, per Gran Bretagna e Danimarca spesso nascondono il fatto che l'adesione a Eurolandia è un obbligo, e non una possibilità, per un paese membro della Ue. Non è possibile quindi immaginare un'uscita unilaterale dalla sola Unione monetaria. E una secessione dall'Unione Europea sarebbe davvero molto costosa: «Modificherebbe i diritti e le obbligazione di ogni persona fisica e giuridica dentro e fuori il territorio dello Stato secessionista».

Non risolverebbe quindi il problema un ritiro da Eurolandia senza la rinuncia alla moneta comune, con la creazione di un sistema simile a quello di Panama, che utilizza dollari Usa, o quello del Montenegro e del Kosovo, che adottano l'euro. Bruxelles e Francoforte non amano l'eurizzazione di altre economie, ma il fenomeno è incontrollabile e infatti tende a estendersi a nuovi paesi.
Se la secessione è difficilissima ma giuridicamente possibile, l'espulsione diretta è invece esclusa. Il trattato di Lisbona parla solo di «sospensione» dei diritti, anche di quelli di voto, per i paesi membri "colpevoli" di gravi violazioni dei trattati. In teoria, si può solo immaginare, nota Athanassiou, che gli stati Ue facciano passi avanti nell'integrazione lasciando indietro i partner inadempienti.

Ma sono questi scenari davvero possibili? Forse no. Per ora, spiega Athanassiou, la crisi ha spinto paesi euroscettici, come l'Islanda, ad avvicinarsi all'Unione. Il contrario no.

 

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