Il flop azzurro ai mondiali di atletica

di Carlo Genta

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21 agosto 2009

L'azzurro può essere anche il colore della sofferenza. Lo abbiamo scoperto in questa estate aperta (malissimo) dalla Confederation Cup calcistica e proseguita peggio tra la deprimente Italia del basket e ora quella inconsistente dell'atletica. I mondiali di nuoto, direte. Giusto, ma il tuffo nelle piscine romane è stato come una vacanza, un paio di giorni in spiaggia. E poi a guardare bene anche lì, sotto il vestito splendido di due fuoriclasse bionde il nulla di un movimento che fatica a trovare un ricambio di generazione tra i maschi e a crescere in quantità ad alto livello tra le ragazze (ricorderete la polemica tra regina Federica e le sue compagne di staffetta).

Ragionamenti azzurro cupo che si mescolano guardando la faccia di Alex Schwazer, oro olimpico nella 50 km a Pechino, comune mortale sconfitto sul marciapiede dopo metà gara mondiale. "Non mi sono mai vergognato tanto, ma avevo mal di stomaco da giorni, da quando sono arrivato a Berlino". Il mal di stomaco ce l'ha fortissimo tutta l'atletica italiana mai così in basso nella sua storia, mai così nuda, mai senza medaglie a un grande evento: il legno di Rubino (20 km) e della Di Martino (alto) è statistica, certo non storia. E sperare nei miracoli da ultimo giorno, sarebbe stupido come presentarsi a un esame universitario dopo aver studiato solo un capitolo del libro.

Italia, terzo mondo. Non che ci sia qualcosa di male, basta prenderne atto senza mentire. Che per Schwazer sarebbe stata dura l'avevamo capito già leggendo le interviste pre-mondiale: lui di solito così "mourinhesco" delle dichiarazioni, così spavaldo e incisivo che si nascondeva dietro i luoghi comuni. Se non abbiamo talento e ora pure nella nostra enclave, la nostra piccola riserva, quella della fatica, non riusciamo a produrre più, sarà meglio darsi ad altro. Il volo del tacchino azzurro a Berlino è figlio di una gran confusione: federale, organizzativa, di gestione.

Basta ripercorrere le tappe della non-carriera di quello che doveva essere la nostra grande speranza, Andrew Howe, tra allenamenti diretti dalla mamma, gare sbagliate, pubblicità di merendine e propositi da rock star o da Isola dei Famosi. ''Fare solo mezza gara e ritirarsi senza lottare tanto è una prestazione davvero deludente'', ha detto il campione olimpico di maratona ad Atene 2004, Stefano Baldini. ''Una giornata no puo' capitare, ma non così. Forse Schwazer ha pagato a caro prezzo i troppi mesi senza gare ad alto livello dopo il successo di Pechino". Forse. Forse quello, forse i riflettori, forse troppi giornali rosa confetto attorno a dipingere la favoletta del principe Alex e della reginetta del pattino su ghiaccio Carolina Kostner. Forse, ma anche di Baldini non si ricordano colate d'oro dopo l'impresa di Atene. Forse chi ha bisogno di far fatica come dell'ossigeno, non può rinunciare alla fame ma al tempo stesso viene ingoiato dalla prima fama. E lo sport oggi non perdona più, l'atletica che si combatte su centesimi di secondo e millimetri men che meno. Riguardatevi le lacrime di plastica della ex regina Isimbayeva, rapita da pedane diverse e molto più glamour di quelle del salto con l'asta.

E' chiaro che il fondo lo devi toccare, sennò come fai a capire di contare ormai nulla. E siamo incerti se il punto più profondo e più nero di questo mondiale sia il medagliere immacolato come la bandiera della resa, o le dichiarazioni cariche di rabbia di Elisa Cusma dopo il pallidissimo sesto posto negli 800. Carsten Semenya sarà una donna, un uomo, un trans, un ermafrodito o il diavolo che volete voi, ma nulla giustifica la pubblica umiliazione di un essere umano di 18 anni. Questa la pagina più vergognosa del mondiale: un pubblico linciaggio che Iaaf e Cio dovevano fermare e invece hanno viscidamente alimentato.

Tornando all'atletica azzurro smorto, adesso si apriranno tante di quelle tavole rotonde che manco in una mensa aziendale. Noi non sapremmo indicarvi le cause vere dello zero al quoto e quindi nemmeno le strade da prendere, al di là della constatazione di cronaca che il puro talento fisico del black power non è parte del nostro patrimonio. Cui se ne aggiunge un'altra: basta fare un giro nei nostri campi di atletica per rendersi conto che sono ormai frequentati solo da quelli che vanno a fare la corsetta, mentre la base degli agonisti è ridotta all'osso. Però, chissà perché, ci viene in mente Flavia Pennetta che ha fatto le valige e ha preso un biglietto di sola andata per la Spagna: lì, da emigrante, ha costruito il numero 10 della classifica mondiale del tennis. La stessa cosa farà la furba Federica Pellegrini volando negli Stati Uniti. All'estero, lontano da casa, sarà anche difficile trovare gli spaghetti buoni, ma è mangiando il pane duro, soli tra molti anche più bravi, lavorando coi migliori, l'impressione è che solo così chi ne ha voglia e talento sufficiente possa diventare grande.

21 agosto 2009
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