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L'ultimo muro della guerra fredda

di Simon Schama

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16 ottobre 2009
(Grazia Neri)

In un tardo pomeriggio estivo, l'ultima frontiera della guerra fredda, la linea di demarcazione militare che divide le due Coree sembra un panorama da cartolina, il sogno di un pittore di paesaggi romantico; a patto naturalmente di non tener conto della recinzione di filo spinato che corre lungo la sommità delle colline. Indifferenti alla storia, le libellule, onnipresenti in Corea, saltellano e svolazzano tra i nidi di mitragliatrici. Cento metri più giù rispetto al ripido fianco della collina, il fiume Imjin si snoda attraverso una campagna bucolica, che 59 anni fa era scavata dai colpi di mortaio. Sulla riva meridionale gli alberi, intrecciati con l'uva selvatica, si spingono fino al bordo del fiume. Sulla riva settentrionale invece la foresta è stata rasa al suolo, e i soldati sudcoreani del posto di osservazione ti dicono che i loro nemici comunisti non hanno disboscato solo per poter sparare meglio, ma anche per scoraggiare defezioni tra le proprie file.

Di tanto in tanto i soldati dell'esercito del popolo della Corea del Nord scendono fino al fiume per pescare qualche pesce per la cena o per catturare i cinghiali che scorrazzano nei pochi boschetti rimasti dal loro lato. I maiali rovistano nella spazzatura scaricata dagli avamposti sudcoreani, sicché si può dire che indirettamente, per tramite dei maiali da ingrasso, il Sud dà da mangiare al Nord. Se non si procacciassero il cibo per conto loro, dicono scherzando i sudcoreani, i soldati nemici per cena avrebbero zuppa di erba e corteccia. Un'invasione dal Nord, dicono, più che dal filo spinato è scongiurata dal timore delle autorità nordcoreane che le truppe dell'esercito del popolo, se mai dovessero arrivare a Seul, si infilerebbero nel primo Burger King e non ne uscirebbero per una settimana.

Battute a parte, è più che evidente l'eloquente contrasto fra le montagne brulle e spoglie del Nord e i verdissimi campi di riso e granturco del Sud. I contadini locali che si sono trovati intrappolati nella zona demilitarizzata sono sovvenzionati dall'Agenzia congiunta per la sicurezza (Nazioni Unite e Corea del Sud) e i loro campi sono stati bonificati dai milioni di mine che i cinesi avevano lasciato durante le loro offensive della guerra del 1950-1953. Su questi terreni non è consentito l'uso di pesticidi: per questo il riso "Dmz", raccontano i soldati, è il più fragrante di tutta la Corea.

Et in Arcadia ego. Un'isola di riso biologico da intenditori circondata da boschi minati riassume quel bizzarro accostamento di prosperità e paranoia che è la linea del fronte coreana. E come ci ricorda la recente missione di Bill Clinton, che ha ottenuto il rilascio di due giornaliste americane condannate a 12 anni di lavori forzati, per non parlare degli occasionali esperimenti nucleari sotterranei, sessant'anni dopo quella guerra che pochi al di fuori della regione ricordano la Corea conta ancora. È la guerra-zombie, che non trova riposo e ancora smania per far danni. La questione coreana è reliquia e presagio al tempo stesso: un conflitto ideologico conservato in gelatina e condito con la più piccante delle salse piccanti per un presidente Usa impegnato su innumerevoli fronti e le sue forze armate già sottoposte a grande sforzo. Kim Jong-il, l'uomo autodesignatosi il Caro Leader, è ansioso di ricordare al mondo che i suoi missili possono raggiungere la California. Sembra una barzelletta, ma non lo è. Ogni volta che Pyongyang mostra i muscoli Tokyo ridacchia, ma di un riso nervoso.

Su, al posto di osservazione Tifone, una farfalla monarca, più grossa di un colibrì, si imbatte in un sacco di canapa abbandonato ai piedi del filo spinato. Il soldato bonaccione che ci scorta mentre facciamo delle riprese per un documentario sulle grandi sfide della politica estera di Obama mi dice che quel sacco contiene una bomba a grappolo. Ogni due mesi circa capita che un fulmine di una delle tante tempeste che infuriano sulle montagne ne faccia esplodere una. «La prima volta che è successo pensavo che fosse cominciata la guerra...».
In questa giornata di fine estate, i soldati sembrano pronti più a fronteggiare l'influenza suina che il milione di soldati dell'esercito del popolo che staziona dall'altro lato della zona demilitarizzata. Ne vediamo plotoni interi, seduti nei camion, con la faccia coperta da mascherine protettive celesti. Ci chiedono educatamente se possono misurarci la temperatura, una procedura a cui loro stessi si sottopongono quattro volte al giorno. Un soldato m'infila un termometro sotto l'ascella e, cinque minuti dopo, annuncia che scoppio di salute.

Questo intreccio di commedia e catastrofe risulta più teatralmente evidente 50 chilometri a Ovest di Panmunjom, dove l'Uncmac (United nations command military armistice commission) possiede la sua base fin dalla cessazione delle ostilità, nel 1953. Il soldato semplice di prima classe Anthony Hauch, di Filadelfia, ci ricorda - con la giovialità vecchia America che promana dal suo aspetto da star del cinema - che ci troviamo in una Zona di combattimento attivo, anche se ufficialmente smilitarizzata. «Se per caso vi viene la fantasia di scendere dall'autobus e andare a far pipì sul lato della strada, fatevela passare». Le mine antiuomo - ce ne sono cinque milioni - sono lì in attesa degli ignari. Ma non scoppiano mai?, chiediamo noi. «Certo, è materiale sovietico, molto vecchio e piuttosto instabile. Ogni tanto un cervo ci finisce sopra».

  CONTINUA ...»

16 ottobre 2009
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