I fallimenti del mercato, da cui sono partite prima la crisi finanziaria e poi la recessione, hanno riportato il pendolo del potere verso la politica. A farne le spese non sono stati solo gli attori del mercato, cioè le banche e le imprese, ma anche le Autorità indipendenti di regolazione, quei "corpi speciali" della burocrazia creati proprio per arginare le interferenze della politica quando si pensava che concorrenza, trasparenza e un mix di sorveglianza e autoregolamentazione potessero assicurare il buon funzionamento dei mercati.
Oggi le authority sono sotto assedio, e non solo in Italia. I governi tendono infatti a riappropriarsi di competenze che avevano ceduto. Il perché è evidente: la politica non tollera di dover pagare, in termini di consenso, colpe che giudica non sue. E poiché sono stati i soldi dei contribuenti a tirar fuori i mercati dai guai in cui si erano cacciati, chi da quei contribuenti è stato eletto alza la voce.
Il caso più evidente è quello della Banca d'Italia. Dopo l'ingresso dell'Italia nell'euro, la politica monetaria si fa a Francoforte, sede della Banca centrale europea. E la vigilanza sul sistema bancario, passati gli anni burrascosi dell'interventismo del governatore Antonio Fazio e completata la ristrutturazione del settore con le grandi fusioni, è tornata a fare quello che deve fare: sorvegliare la "stabilità" degli istituti. Senza preoccuparsi in modo morboso degli assetti proprietari, opportunamente liberalizzati con le nuove norme sulle partecipazioni delle imprese nelle banche e delle banche nelle imprese.
L'arrivo di Mario Draghi, nominato dal precedente governo Berlusconi all'inizio del 2006, ha dato alla Banca d'Italia grande visibilità a livello internazionale. Draghi presiede infatti il Financial stability board, recentemente "istituzionalizzato" come braccio operativo del G-20 nella finanza. È molto ascoltato nei consessi sovranazionali ed è uno dei più accreditati candidati alla guida della Bce, quando Jean-Claude Trichet lascerà nel 2011, e del Fondo monetario internazionale dopo Dominique Strauss-Khan, che scade nel novembre 2012.
Da un lato, quindi, la Banca d'Italia conta meno di prima. Dall'altro però è influente e ascoltata, certo più di prima. Fatto sta che la banca centrale è il bersaglio preferito, insieme alla categoria degli economisti, di Giulio Tremonti. Il ministro dell'Economia, che peraltro proprio martedì ha annunciato in modo solenne il sostegno suo e del governo alla candidatura Draghi alla Bce, non ha perso occasione per punzecchiare il governatore in pubblico, come è accaduto al G-7 in Canada o dopo il discorso al Forex. Ma soprattutto ha fatto di tutto per restituire al suo ministero funzioni che prima erano competenza della banca centrale. «Il ruolo dei prefetti nella disciplina dei Tremonti bond e la vigilanza sul massimo scoperto affidata al Tesoro sono gli esempi più vistosi», sintetizza un influente banchiere. I prefetti devono verificare che i finanziamenti delle banche alle imprese non rallentino: è la contropartita "politica" alla ciambella di salvataggio che il governo ha messo a disposizione delle banche con le obbligazioni ibride (utilizzate però solo da quattro istituti). Il Tesoro deve invece controllare che la commissione sul massimo scoperto, abolita per legge, non venga reintrodotta dalle banche sotto altre forme.
A Tremonti non piace che le banche, uscite dalla crisi finanziaria meglio di quelle degli altri paesi, abbiano ripreso a fare profitti ma concedano credito con molta cautela perché temono le insolvenze delle aziende che aumentano nelle fasi recessive. E vuole avere gli strumenti per tenerle sotto pressione.
Draghi, a sua volta, non è stato tenero con le banche: all'assemblea dell'Abi del luglio scorso e alla Giornata del risparmio in ottobre ha usato un tono e un linguaggio inconsuetamente ruvido nel sottolineare i difetti del sistema. Ma più che invitare i banchieri a fare il loro mestiere recuperando quella capacità di selezione delle imprese che è stata abbandonata per far posto ad automatismi non sempre efficaci, non può fare.
Ma il risultato di tutto questo è che la Banca d'Italia, cui non mancano certo competenza e autorevolezza, è di fatto emarginata dal dibattito sulle scelte di politica economica. E non viene coinvolta nelle sedi tecniche in cui le politiche si elaborano. I suoi contributi restano lettera morta, come è successo all'eccellente seminario sul Mezzogiorno organizzato in via Nazionale alla fine di novembre. Il che, considerato il mediocre livello delle strutture tecniche dei ministeri, è un vero spreco.
La Consob vive da due anni in uno stato di quasi paralisi dovuto al rinnovo del suo vertice. Il presidente Lamberto Cardia è infatti riuscito, nella primavera del 2008, a far approvare dal parlamento una leggina bipartisan che ha prolungato di due anni il suo mandato.
Con una commissione spesso divisa, la Consob si muove un po' a scatti. Segue una linea in generale condivisibile: stringere i bulloni su alcune questioni, come le manipolazioni del mercato, e allentarli su altre, come i costi che gravano sulle società quotate. E teorizza sempre la contendibilità del controllo come miglior stimolo all'efficienza delle imprese. Poi però alle parole non sempre seguono i fatti. Anzi. Durante la crisi è stato proprio Cardia a suggerire al governo e al parlamento di introdurre norme a difesa delle principali società italiane il cui valore di borsa era precipitato a livelli molto bassi, rendendole assai appetibili agli occhi di potenziali scalatori.
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