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Con tutti questi cambiamenti, il futuro stesso di questa fondamentale materia prima ormai è seriamente messo in discussione, dibattuto e contestato, anche se il mondo ne avrà bisogno più che mai. Il Dipartimento dell’energia del Governo degli Stati Uniti e l’Agenzia internazionale dell’energia prevedono che l’impiego energetico globale, anche tenendo conto dei miglioramenti in termini di efficienza, crescerà di quasi il 50 per cento dal 2006 al 2030, e che nel 2030 il petrolio continuerà a garantire il 30 per cento o più dell’energia.
Ma ci riuscirà effettivamente?
Il petrolio è stato un’industria globale fin dal principio, nel lontano 1861, quando dalla Pennsylvania – l’Arabia Saudita del XIX secolo – partì il primo carico di cherosene per la Gran Bretagna. (I potenziali marinai avevano una tale paura che il cherosene potesse prender fuoco che si dovette farli ubriacare per imbarcarli a forza.) Ma questa è la globalizzazione dell’offerta, una storia che conosciamo bene. L’elemento nuovo e decisivo è la globalizzazione della domanda.
Per decenni, buona parte del mercato – e i mercati che contavano di più – era concentrata in Nordamerica, Europa occidentale e Giappone. E queste erano anche le zone che crescevano. All’epoca della prima Guerra del Golfo, nel 1991, la Cina figurava ancora fra i Paesi esportatori di petrolio.
Ma ora la crescita sta in Cina, in India, in altri mercati emergenti e nel Medio Oriente. Fra il 2000 e il 2007, la domanda giornaliera di petrolio è cresciuta di 9,4 milioni di barili. Quasi l’85 per cento di questa crescita è venuta dai mercati emergenti. C’erano molte ragioni dietro all’impennata dei prezzi fino ai 147,27 dollari dello scorso anno, dalle questioni geopolitiche al dollaro debole, all’impatto dei mercati finanziari e della speculazione (in tutti i suoi molteplici significati). Ma il punto di partenza erano i fondamentali economici, l’impennata della domanda di petrolio trascinata dalla forte crescita economica dei mercati emergenti. Si tratta di un cambiamento forse perfino più forte di quanto creda la gente: quest’anno, finora, si sono vendute più automobili nuove in Cina che negli Stati Uniti. Quando ripartirà la crescita economica, sarà fondamentale capire che cosa succederà alla domanda petrolifera in questi Paesi emergenti.
I conti sono presto fatti: più consumatori significano più domanda, il che significa che serve una maggiore offerta. Ma dal punto di vista politico? Qui le previsioni sono meno allegre e prefigurano un nuovo scenario di tensione internazionale, una competizione, perfino uno scontro fra la Cina e gli Stati Uniti per il controllo di risorse petrolifere «scarse». È uno scenario che rievoca un modello storico ben noto, la rivalità fra la gran Bretagna e l’«emergente» Germania che sfociò nel disastro della prima guerra mondiale.
Questo scenario, per quanto convincente, ha poco a che fare col reale funzionamento del mercato petrolifero mondiale. I cinesi sono gli ultimi arrivati sulla scena, disposti e capaci di sborsare fior di dollari per ottenere accesso alle fonti di approvvigionamento nuove e già esistenti, e, ultimamente, anche a concedere prestiti a Paesi produttori di petrolio per assicurarsi forniture future. Con più di 2mila miliardi di dollari in riserve valutarie estere, la Cina ha sicuramente i mezzi per fare prestiti.
Ma l’industria petrolifera globale non è un settore in cui si va per conto proprio. Considerando i rischi e i costi dello sviluppo su larga scala, le compagnie tendono a lavorare in consorzio con altre compagnie. I Paesi esportatori di petrolio cercano di diversificare le nazioni e le compagnie con cui lavorano. Inevitabilmente, qualsiasi Paese nella posizione in cui si trova la Cina – che ha visto crescere la domanda giornaliera di petrolio da 2,5 a 8 milioni di barili nel giro di una quindicina d’anni – si preoccuperebbe di assicurarsi il rifornimento. Ma un incremento di questo genere non prefigura inevitabilmente conflitti: è un messaggio sulla crescita economica e l’innalzamento del tenore di vita. Sarebbe molto più preoccupante se, di fronte alla crescita della domanda, le compagnie cinesi non investissero nella produzione sia dentro che fuori i confini nazionali (metà del fabbisogno petrolifero cinese è coperto dalla produzione interna).
In questo nuovo mondo petrolifero ci sono potenziali punti critici, ma non sarà la normale concorrenza commerciale a scatenarli: i problemi nascondo quando il petrolio (e il gas naturale) finiscono implicati in questioni di politica estera più generali; in particolare, oggi, la crisi potenzialmente esplosiva che ruota intorno alle ambizioni nucleari dell’Iran, ricco di petrolio e gas naturale.
Ma nonostante tutto il parlare che si fa di uno scenario di oil clash, complessivamente sembra esserci meno preoccupazione rispetto a qualche anno fa, e molto più dibattito sul «dialogo energetico». I cinesi stessi sembrano più tranquilli riguardo al loro ruolo, di crescente rilevanza, in questo mercato petrolifero globalizzato. Anche se i rischi ancora esistono, i cinesi – e gli indiani al loro fianco – hanno la stessa posta in gioco di altri consumatori, in un mercato mondiale adeguatamente rifornito, che è parte di una più generale economia globale. Mandare in crisi quell’economia, come l’anno trascorso ha efficacemente dimostrato, non serve ai loro scopi. Perché i cinesi dovrebbero voler lanciare un braccio di ferro con gli Stati Uniti quando il mercato di esportazione Usa riveste un ruolo tanto centrale per la loro crescita economica e quando i due Paesi sono tanto strettamente intrecciati fra loro dal punto di vista finanziario?
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