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Realpolitik? Le mie «istruzioni per l'uso»

di Paul Wolfowitz

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29 agosto 2009

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Il verdetto non è ancora stato pronunciato. Ma la speranza è che Obama e i suoi collaboratori dimostrino di essere realisti nel vero senso del termine, affrontando il problema della natura degli stati e non ignorando la realtà che le riforme democratiche sono una forza straordinaria per promuovere gli interessi Usa.

2) La politica estera è una questione di interesse nazionale

Naturalmente. Ma questo che significa? Nessuno è contro l'interesse nazionale, ma i realisti e i loro critici divergono significativamente su che cosa sia l'interesse nazionale. Un dibattito non certo nuovo.
Negli anni 70 la grande controversia verteva sulla politica di distensione, che consisteva nell'ignorare l'intrinseca brutalità del regime sovietico per giungere a un accordo con esso. Un esempio estremo in questo senso fu il rifiuto del presidente Gerald Ford di incontrare il dissidente russo Aleksandr Solzhenitsijn nel 1975. Gli avversari della distensione, come il presidente Ronald Reagan e il senatore Henry Jackson, non erano contrari a negoziati con i sovietici, ma sostenevano che le condizioni per negoziare dovevano essere molto più rigide e dovevano essere accompagnate da pressioni per un cambiamento all'interno dell'Unione Sovietica.

Durante il periodo in cui ho lavorato per il governo americano ho partecipato più volte a questo dibattito. In un'occasione, l'argomento del contendere era se tenere in piedi o meno l'Ufficio per i diritti umani del Dipartimento di stato. I realisti lo consideravano una fastidiosa invenzione dell'amministrazione Carter; altri ritenevano che fosse più realistico mantenere la pressione su una questione che aveva avuto grande importanza nella competizione con l'Unione Sovietica. Anche negli anni 80 la scelta di Ronald Reagan di premere in favore dell'adozione di riforme democratiche nelle Filippine e in Corea del Sud fu oggetto di critiche non soltanto da parte dei realisti, ma perfino da parte dell'ambasciatrice Jeane Kirkpatrick, spesso etichettata come una neocon, che era una convinta sostenitrice della necessità di lavorare insieme ai regimi autoritari. E di nuovo, dopo la caduta del Muro di Berlino, i realisti in generale erano contrari ad accogliere nella Nato le nuove democrazie dell'Europa orientale, e in particolare erano riluttanti a sostenere i movimenti indipendentisti in Ucraina e in altre repubbliche sovietiche.

Molti dei maggiori successi di politica estera della presidenza di Bush padre - la liberazione del Kuwait, l'unificazione democratica della Germania, la restaurazione della democrazia a Panama e l'intervento per salvare la Somalia dalla fame - sono stati il risultato di azioni audaci, con una dimensione morale che riguardava la natura degli stati. Per il primo di questi successi, gran parte del merito va attribuita a Scowcroft , anche se l'ex consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, il suo collega realista, la definì un'azione «ingenua» e una «reazione smisurata».

Contemporaneamente, alcuni dei fallimenti più deplorevoli di quell'amministrazione - l'inazione di fronte al massacro degli sciiti da parte di Saddam Hussein dopo la Guerra del Golfo, l'incapacità di affrontare la sanguinosa guerra nell'ex Jugoslavia, l'opposizione percepita all'indipendenza del- l'Ucraina e l'iniziale riluttanza a sostenere Boris Eltsin, il presidente russo riformista - furono manifestazioni di un realismo rigido. Io mi sono trovato d'accordo con Scowcroft sulla Guerra del Golfo e con Brzezinski sul sostegno all'allargamento della Nato e all'intervento in Bosnia: non so se questo faccia di me un realista o se faccia di loro degli ideologi. Ma so che ignorare la natura degli Stati vuol dire ignorare una realtà fondamentale che ha ripercussioni enormi sugli interessi nazionali degli Stati Uniti. È un atteggiamento dogmatico, o addirittura ideologico.

3) Realismo significa trattare con regimi che non ti piacciono

Sì. Ma contemporaneamente si può premere per le riforme. D'altronde è quello che fece Reagan: condusse negoziati seri con l'Unione Sovietica, ottenendo risultati concreti, e al tempo stesso definì quel regime «l'impero del male», sfidandolo con forza in politica estera e premendo con decisione per le riforme al suo interno. È vero, Reagan col tempo ammorbidì il suo atteggiamento in materia di diritti umani, ma questo fu la conseguenza di progressi reali da parte sovietica sull'argomento, non di un'indifferenza da parte americana. E alla fine furono i cambiamenti all'interno dell'impero sovietico, non i colloqui sul controllo degli armamenti, a mettere fine alla guerra fredda.

La politica estera americana in effetti ha obbiettivi molteplici, che vanno mantenuti in equilibrio, ma promuovere le riforme spesso è uno di questi obbiettivi. I regimi brutali non addolciranno il loro comportamento se gli Stati Uniti usano parole gentili per descriverli. Anzi, la percezione di una scarsa disponibilità da parte Usa a difendere i paesi amici è un grande handicap quando si tratta con regimi come quello nordcoreano e quello iraniano, che si rendono subito conto della vulnerabilità. Questi stati tratteranno - se mai lo faranno - quando riterranno che sia nel proprio interesse, non perché gli Stati Uniti avranno messo in sordina i punti di attrito. E per ottenere cooperazione serve pressione. Per fare un esempio, il leader libico Muhammar Gheddafi non ha rinunciato al suo programma nucleare militare perché l'amministrazione Bush gli ha sussurrato parole dolci, ma perché era spaventato dalla determinazione americana. A volte la pressione per il cambiamento da parte della popolazione o delle élite nazionali può rappresentare la migliore forma di pressione su questi regimi per gli Stati Uniti.

  CONTINUA ...»

29 agosto 2009
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