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La green economy? Non è la valle dell'Eden

di David J. Rothkopf*

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Domenica 30 Agosto 2009

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Ma anche nel momento in cui questi Stati raggiungono l'apoteosi del loro potere grazie al prezzo e alla scarsità di petrolio, il loro destino è segnato. Quando alla fine il picco dell'offerta sarà raggiunto il petrolio avrà imboccato una via senza ritorno, ed è probabile che il picco della domanda arrivi ancora prima. Bruciare petrolio ai ritmi attuali semplicemente non è una strada sostenibile, a meno di non vivere ben lontani dal mare o nell'estremo nord, o a meno di non avere una società che produce stivali da pesca a tuttacoscia.

E dunque gli stati petroliferi saranno ricchi e influenti e, paradossalmente, in declino. I più lungimiranti fra loro forse useranno il tempo che hanno a disposizione per pianificare, coprirsi le spalle. Ma la morte lenta dell'economia petrolifera condurrà indubbiamente a esplosioni di tensione, quando le pressioni sociali si tradurranno in fratture politiche e politici opportunisti cercheranno di preservare la ricchezza nazionale ricorrendo al vecchio e collaudato metodo di rubarla ai Paesi vicini.

Prevedere dove si verificheranno queste fratture è difficile. Ma non serve molta immaginazione per giungere alla conclusione che una Russia dipendente dalle esportazioni petrolifere ma alle prese con un calo della domanda, con l'assottigliamento delle riserve e con un disastro demografico senza precedenti si sentirebbe sminuita, e probabilmente diventerebbe un pericolo per i suoi vicini. Oppure pensiamo all'impatto che produrrebbe l'inevitabile declino del petrolio sulla lotta per la successione in Arabia Saudita, sempre che la struttura attuale non sia già crollata sotto il peso del malgoverno e del disinteresse verso la popolazione della famiglia regnante. Le potenze economiche con una condanna a morte geologica che incombe su di loro probabilmente diventeranno imprevedibili. In un modo o nell'altro, le loro sofferenze ricadranno anche su di noi.

3 - Effetti collaterali dell'imminente boom del nucleare
È semplicemente impossibile invertire gli effetti dei cambiamenti climatici senza incrementare in modo consistente il ricorso all'energia nucleare. Non solo è una fonte energetica praticamente a emissioni zero, scalabile e comparativamente efficiente, ma con appena una tonnellata di uranio si produce la stessa quantità di energia che si produce con circa 3.600 tonnellate di petrolio (più o meno 80mila barili). È una tecnologia molto più sofisticata e sperimentata di quasi tutte le altre alternative emergenti. Fatti che hanno già portato a una rinascita molto concreta dell'energia nucleare, concentrata nei paesi emergenti affamati di energia (quasi due terzi dei progetti annunciati sono relativi a paesi in via di sviluppo).

Sfortunatamente, l'energia nucleare si porta dietro anche rischi reali e percepiti. Se si guarda alla storia, i rischi di incidenti nelle centrali sono veramente minimi, ma incombono due problemi molto concreti: uno è come smaltire il combustibile esausto, un dilemma ancora oggetto di acceso dibattito fra gli ambientalisti. E un altro è come garantire la sicurezza del combustibile in ogni fase del suo ciclo vitale, specialmente in paesi emergenti a corto di liquidità, che spesso sorgono in aree flagellate dall'instabilità, dove operano organizzazioni terroristiche con ambizioni nucleari.

A ogni nuovo progetto le possibilità di una falla nella sicurezza aumentano. E il rischio che qualcuno usi il combustibile per produrre una bomba atomica non è l'unico incubo nucleare che dobbiamo fronteggiare. Le scorie radioattive potrebbero essere usate per realizzare una bomba "sporca", con impatti devastanti. E forse il rischio maggiore per la sicurezza è quello di chi si gingilla con programmi nucleari a porte chiuse.

Robert Gallucci, l'esperto di armi nucleari, una volta mi ha detto che un catastrofico evento terroristico nucleare, considerando il costante incremento dei rischi, è "quasi certo". Un evento del genere avrebbe vaste ripercussioni globali, negli ambiti più vari, dalle libertà civili al commercio. Immaginate, il giorno dopo il disastro, un'azienda che voglia provare a spedire via nave una merce in una qualunque parte del mondo. Per fare solo un esempio, oggi negli Stati Uniti solo il 5% dei container viene sottoposto a ispezione visiva. Le pressioni per estendere le ispezioni al 100% delle merci dopo l'incidente nucleare bloccherebbe probabilmente milioni di prodotti nei porti americani, facendo schizzare in alto i prezzi dei beni di consumo e facendo assottigliare le scorte.

Un nuovo trattato di non proliferazione nucleare è già in progettazione, ma anche se il presidente americano Barack Obama sta lavorando per realizzare il suo sogno di un mondo libero dalle armi nucleari, è già evidente che i rischi rappresentati dai vecchi arsenali nucleari nazionali impallidiscono di fronte a quelli legati a piccoli gruppi che sfruttano i punti deboli di un'infrastruttura nucleare mondiale sempre più complessa.

  CONTINUA ...»

Domenica 30 Agosto 2009
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