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È la Cina il vincitore della Guerra Fredda

di Andrea Romano

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8 novembre 2009

Domani il mondo finalmente riunificato dalla fine della guerra fredda compie vent'anni. Ma cos'ha rappresentato il lungo quarantennio del conflitto bipolare per l'Europa e per l'Italia? Ne discutiamo con Lucio Caracciolo, direttore di «Limes» e analista di politica internazionale, chiedendogli prima di tutto se la guerra fredda fosse davvero inevitabile per un sistema internazionale appena uscito dal lungo conflitto mondiale.

Un conflitto inevitabile
«Se nella storia niente è davvero inevitabile – risponde Caracciolo – è pur vero che l'avvio della guerra fredda è stato uno degli avvenimenti storici a più alto tasso di probabilità. Le alternative erano tutte meno verosimili, perché nessuno dei futuri contendenti globali aveva una strategia realistica per il dopoguerra. Né fu mai una vera opzione la prosecuzione dell'alleanza antifascista dopo la vittoria su Hitler, perché Stalin era mosso da una rappresentazione puramente territoriale della sicurezza sovietica. «Più allarghiamo la nostra zona di influenza diretta e più tranquilli saremo», era questo l'orizzonte strategico della leadership staliniana. In fin dei conti il crollo dell'Urss è stato causato da questa stessa idea, e dunque dall'incapacità di conservare un impero troppo esteso per un periodo troppo lungo. In un'ipotesi di storia controfattuale, possiamo immaginare che se i sovietici non avessero dovuto occuparsi anche dei polacchi probabilmente non sarebbe mai nata Solidarnosc. E oggi, forse, saremmo ancora alle prese con l'Urss».

Sulla strada di una storia controfattuale potremmo anche domandarci se la creazione di un sistema di sicurezza occidentale imperniato sulla Nato fosse l'unica scelta a nostra disposizione. «La creazione del sistema euroatlantico è stata una precisa scelta politica e culturale, opposta a un'altra ipotesi che circolò nel dibattito diplomatico nei primi anni della guerra fredda: la finlandizzazione dell'Europa, ovvero la demilitarizzazione e la neutralizzazione della Germania e di altri stati dell'Europa centrale».

La "finlandizzazione" europea
In effetti la "finlandizzazione europea" fu l'opzione perseguita da una parte della leadership sovietica (e in particolare da Lavrentij Berija) dopo la morte di Stalin nel 1953, anche in conseguenza delle altissime tensioni sociali che l'imposizione del modello economico sovietico stava provocando nella stessa Germania oltre che in Polonia e Ungheria. Un'opzione rifiutata dai successori di Stalin, mentre la ricostruzione economica dell'Europa occidentale produceva risultati impressionanti. «Perché fin dai primi anni del secondo dopoguerra la leadership statunitense aveva investito sulla rinascita economica europea come garanzia contro la diffusione del comunismo», spiega Caracciolo. Forse il presidente Truman sopravvalutò l'autentica pericolosità del "bacillo comunista", immaginando che un'Europa debilitata dalla miseria si sarebbe facilmente arresa al contagio marxista, ma sta di fatto che senza comprendere quel timore non si capisce l'investimento americano sul Piano Marshall né la stessa creazione della Nato: che non fu solo un'alleanza di sicurezza militare ma anche il perno di una strategia di consolidamento sociale e culturale dell'Europa occidentale».

L'avanzata terzomondista dell'Urss
Intorno alla metà degli anni Settanta la "guerra fredda globale", come l'ha definita Arne Westad guardando al suo andamento nel Terzo Mondo, sembrò volgere a favore del blocco sovietico. La debolezza statunitense dopo la sconfitta in Vietnam, il crollo della presidenza Nixon e l'incertezza della presidenza Carter, insieme alla curvatura marxista degli ultimi movimenti anticoloniali, fecero pensare a una crescita inarrestabile del prestigio e della potenza dell'Urss e dei suoi alleati. «In realtà né l'Unione Sovietica né l'intero blocco del Patto di Varsavia ebbero mai a disposizione risorse sufficienti per un'autentica politica di espansione su scala globale. In quegli anni l'avanzata terzomondista dell'Urss fu largamente sopravvalutata, così come lo fu la sconfitta americana in Vietnam. Anche perché i cosiddetti amici dell'Urss (in primo luogo la Cuba di Castro) utilizzavano il sostegno di Mosca per perseguire una piccola agenda di espansione su scala regionale, anch'essa destinata a fallire per mancanza di risorse economiche e culturali».

La svolta europea e Ronald Reagan
Il punto di svolta arriva con la fine degli anni Settanta, quando l'Europa occidentale reagisce al dispiegamento sovietico dei nuovi missili di teatro SS20 puntati contro le capitali europee e pretende da Washington un'adeguata protezione. In particolare, è il governo tedesco guidato dal socialdemocratico Helmut Schmidt a chiedere maggiore impegno da una Casa Bianca sempre più debole.

«Il ruolo di alcuni governi europei in quella svolta fu fondamentale – conferma Caracciolo –, perché era chiaro che le prime vittime dell'olocausto nucleare sarebbero stati gli abitanti di Roma e Bonn e non certo i cittadini di New York. Di lì a poco quella svolta fu sancita dalla vittoria di Ronald Reagan e dal ribaltamento degli orientamenti strategici di Washington. Reagan fu il primo presidente statunitense a scommettere sulla vittoria invece che sul pareggio nella guerra fredda. Fino ad allora il conflitto con l'Urss era stato vissuto da Washington come un sistema permanente. Ma Reagan fu un personaggio straordinario anche perché meno condizionato dal passato, in virtù della sua formazione personale, e dunque molto più libero di immaginare il futuro. Compresa la vittoria sull'Unione Sovietica. Da qui la sua scelta di alzare la posta del confronto strategico per smascherare l'inferiorità strutturale dell'Urss, lanciando una nuova corsa al riarmo e l'iniziativa delle cosiddette "guerre stellari". Reagan fu l'incarnazione più perfetta del wilsonismo, come convinzione nella capacità americana di convertire i nemici, e pensò in tutta sincerità di poter conquistare Gorbaciov alla superiorità del sistema occidentale».
  CONTINUA ...»

8 novembre 2009
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