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Ma da che parte è caduto il Muro?

di Mario Margiocco

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11 settembre 2009

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Downtown, dopo il parco profumato di avena sulla vecchia ferrovia, Ground Zero non è più il centro dolente del mondo. I turisti scattano una foto col cellulare, i venditori di souvenir si danno da fare per sfangare la giornata, un sito reclamizza la cessione delle travi storpiate dal fuoco per esibirle come monumenti, «purché non diventi un business». Dalle finestre degli artisti, gli ultimi loft poveri sull'Hudson River, le nuove torri, da quella del New York Times di Renzo Piano, adottata dagli scalatori solitari per i suoi mille eleganti pioli, oscurano la familiare area dove un tempo sorgevano – e pareva per sempre – le gentili Torri Gemelle. Oggi si pregherà, si piangerà, si ricorderà, ma con l'occhio al Blackberry per vedere se arrivano mail con novità sulla crisi economica, la Borsa, il lavoro. Ultimi a dimenticare saranno i familiari delle vittime. Uno dei caduti era Rick Rescorla, veterano della battaglia di Ia Drang in Vietnam, 1965, responsabile della sicurezza per la finanziaria Morgan-Stanley/Dean Witter, che evacuati 2.700 colleghi ritornò nella Torre ad aiutare gli altri sbandati, cantando per rincuorarli nel buio e nel fumo vecchie ballate della Cornovaglia. Poco prima aveva scritto a un amico, «credevamo di essere stati fortunati a scampare al fuoco di Ia Drang e invece ci tocca ora morire da vecchi in ospedale, abbiamo perduto il nostro kairos, la grazia e il destino». Il destino da eroe che Rick credeva smarrito l'attendeva, paziente e irriducibile, l'undici di settembre del 2001. E oggi l'America, e con lei il mondo, ancora si interrogano se il destino prossimo sarà di pace e prosperità, di crisi, di guerra o di una confusa combinazione di tutti gli elementi, in una Storia che solo gli scolaretti timidi del primo giorno di asilo 2009 vedranno fino in fondo.
Come la pensava lo disse chiaramente quel pomeriggio di 25 anni fa. Era il 14 settembre 1984, dal palco della Festa dell'Unità, che quell'anno si svolgeva a Roma, nell'area semiabbandonata del Velodromo dell'Eur. Giulio Andreotti, ministro degli Esteri del governo Craxi, era lì per un dibattito con il suo amico senatore comunista Paolo Bufalini, capo della sezione internazionale di Botteghe Oscure e migliorista di spicco. Si parlava di riunficazione tedesca, e Andreotti sganciò la bomba: «Il pangermanesimo va superato: ci sono due stati germanici e due devono rimanere» disse, e la platea si spellò le mani. E aggiunse che, insomma, lui amava tanto la Germania da auspicare ce ne fossero sempre due.

Naturalmente da Bonn, allora capitale federale, arrivarono dure reazioni diplomatiche (era il capo della Farnesina che parlava), mentre dall'altra parte del Muro naturalmente si apprezzò moltissimo. Andreotti giocava su piani diversi (del resto è lui l'inventore della strategia dei "due forni") e da maestro di real politik si mosse con abilità quando gli eventi si misero a correre. Nel 1989 Andreotti era tornato a palazzo Chigi e agli Esteri c'era Gianni De Michelis. Per l'ex esponente socialista - come raccontò tempo fa a Limes - Helmut Kohl deve dire grazie all'Italia e in particolare ad Andreotti se molte cose andarono a posto.
Era il 18 novembre, nove giorni dopo lo smantellamento del Muro: su invito di Mitterrand i leader dei dodici paesi della comunità si ritrovano all'Eliseo per discutere di tutta la faccenda. Doveva essere un incontro di facciata, senza nessun impegno per favorire l'unificazione. La tensione è grande. Sono in molti ad aver paura di un gigante egemone al centro dell'Europa, Mitterrand in testa. Continua De Michelis: «Dopo cena ci raduniamo intorno al caminetto per un caffè. Mitterrand al centro, attorno a lui i capi di stato o di governo disposti a semicerchio, poi una seconda fila con i ministri degli Esteri». La conversazione segue il copione e niente lascia presagire un colpo di scena.

Mitterrand si riferisce all'unità tedesca come a «un'eventualità storica», da esaminarsi in un futuro imprecisato, e comunque «non in tempi brevissimi». Traccia la linea ribadita dallo spagnolo Gonzalez e dalla Thatcher. «Kohl diventa sempre più rosso di rabbia. È emozionatissimo perché capisce che sta rischiando di restare a mani vuote». Ma è la volta del presidente del Consiglio italiano. Prima che prenda la parola, dice De Michelis, «gli bisbiglio nell'orecchio: "Presidente, adesso tutti si aspettano da te la stoccata finale. Ma qui hai un'occasione unica. Qui non bisogna badare alle proprie idee ma alla politica. Proprio perché tutti sanno come la pensi, se apri uno spiraglio a Kohl, le tue parole varranno doppio"».
Naturalmente nasce l'interrogativo se quella volpe di Andreotti aveva già deciso come forse era. Ma De Michelis continua: aveva preparato una frasetta per fissare la posizione italiana. «Questa frasetta dichiara che l'Europa auspica e promuove l'unificazione della Germania, niente di definitivo, ma è ciò di cui Kohl ha bisogno per superare l'impasse». La dinamica dei fatti ricostruiti in effetti porta alla lettura della frase, che in qualche modo prese un po' tutti in contropiede, proprio perché proveniva da quell'esponente politico che storicamente più di tutti amava la Germania «tanto da volerne due».

  CONTINUA ...»

11 settembre 2009
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