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Nell'arte afroamericana il gallerista Jack Shainman ci crede da trent'anni


Gallerista newyorkese, Jack Shainman è nel mercato dell'arte da oltre trent'anni ed è tra i pochissimi che ha creduto ed esposto gli artisti afroamericani quando ancora i loro nomi apparivano raramente nei calendari delle mostre museali o nei libri di storia dell'arte. Marginalizzati o dimenticati per anni, oggi gli artisti afroamericani sembrano aver fatto passi avanti in direzione di maggiori opportunità e rappresentazione, grazie anche allo Studio Museum in Harlem, al nuovo National Museum of African American History and Culture di Washington DC, e a numerosi progetti espositivi monografici tra cui Kerry James Marshall al Met Breuer di New York. ArtEconomy24 ne ha parlato in esclusiva con il gallerista.

Da quando ha cominciato l'attività di gallerista nel 1985 e fino a oggi lei è stato un punto di riferimento per gli artisti afroamericani e di colore a New York, a cosa si deve questo suo interesse?
Con il mio partner in affari Claude Simard ci interessava introdurre nel mondo dell'arte opere e stili che non avevamo mai visto prima. Non abbiamo pianificato niente, mi piacerebbe poter dire il contrario. È stata una naturale e progressiva scoperta. Noi credevamo in quello che esponevamo: dopotutto devi essere sempre in grado di spiegare e difendere ciò che scegli. E per noi era una questione di qualità. Quando abbiamo cominciato a metà degli anni '80 mostravamo anche molti artisti europei mai visti prima a New York.

Per il primo anno la sua galleria era a Washington DC, una città a maggioranza afroamericana. È lì che ha sviluppato naturalmente il suo legame con questa cultura?
Sì, certo, e in quegli anni la città era estrema e complicata. Ero al 2443 18th Street, sotto Columbia Road nel quartiere di Adams Morgan. Oggi è tutto cambiato.

Quando è cresciuto l'interesse per gli artisti afroamericani da parte di musei e collezionisti privati?
L'interesse c'è sempre stato, ed è per questo che ho potuto lavorare con artisti come Kerry James Marshall. Quando ho visitato la sua mostra al Met Breuer, inaugurata alcune settimane fa, mi sono soffermato con soddisfazione sulle didascalie di ogni dipinto appeso. Molti li ho venduti ai musei già all'inizio degli anni Novanta. Certo, l'interesse oggi è cresciuto a livelli straordinari. D'un tratto il mercato si è aperto a molteplici arti e linguaggi, e rappresenta la diversità del mondo dell'arte: gli artisti che oggi vediamo in mostra lavoravano già dagli anni '70, ma prima non li esponeva nessuno. È arrivato finalmente il momento anche per loro.

Ha avuto subito successo il lavoro di Kerry James Marshall?
Direi di sì, per molti motivi. Sembra ironico, eppure nel 1986 ho dovuto convincerlo che era pronto per esporre il suo lavoro in una mostra monografica: era ancora molto reticente. E Plunge (1992), il dipinto che ha fatto il record in asta a 2,1 milioni di dollari lo scorso maggio da Christie's, racconta questo suo tuffo nel mondo dell'arte newyorkese. Naturalmente adesso non è facile dare un prezzo ai suoi dipinti dopo un simile successo, ma è sempre una buona notizia quando i prezzi in asta superano quelli del mercato primario della galleria.

Immagino che lui fosse una mosca bianca. Qual era lo scenario per gli altri artisti?
Sì, certo. Barkley L. Hendricks, ad esempio, è emerso negli anni '70 e '80, quando musei e collezionisti hanno iniziato ad acquistare il suo lavoro soprattutto nell'area di Washington DC, ma erano tutti interessati ai suoi iconici dipinti in bianco e nero che ben catturavano l'atmosfera degli anni '60. Questa situazione è andata avanti fino a che il curatore Trevor Schoonmaker del Nasher Museum of Art Duke University ha organizzato The Birth of the Cool, una mostra che ha girato numerose istituzioni nel biennio 2008-10. Inoltre, in aprile 2009, Barkley L. Hendricks ha ottenuto la copertina della rivista specializzata Artforum (https://artforum.com). Dunque il suo mercato si è strutturato davvero solo negli ultimi otto anni, quando è entrato anche nelle collezioni della Tate Modern e del Whitney Museum of American Art.

Quali sono i musei che hanno aperto la porta per primi agli artisti afroamericani?
I primi musei ad acquistare opere di artisti afroamericani sono stati la Corcoran Gallery of Art, il Nerman Museum in Kansas City, il Los Angeles County Museum of Art e, naturalmente, il Whitney Museum, il Saint Louis Art Museum, l'Art Institute of Chicago e il Denver Art Museum.

Merito di curatori specifici o di scelte politiche dei musei in questione?
No dipendeva sempre dall'interesse del singolo curatore: ci sono professionisti aperti a correre i rischi di chi incorre in nuovi incontri e scoperte, altri che espongono solo artisti il cui lavoro è già convalidato da altri. Tra i primi c'è Terrie Sultan, che nel 1993 era curatrice alla Corcoran Gallery of Art.

Chi sono gli equivalenti nel mondo del collezionismo privato?
Non ce ne sono molti, perché gli artisti che espongo non producono in grandi quantità. Eppure sono visionari, degli ottimi compagni di avventure, e spesso non affiliati esplicitamente alla comunità afroamericana. Come Lew e Susan Manilow, tra i fondatori e donatori del Museum of Contemporary Art Chicago. Dimostrano che non è necessario essere afroamericani per apprezzare il lavoro di questi artisti, perché ciò che raccontano ha valore universale.

Molti degli artisti con cui ha lavorato e continua a lavorare si esprimono con la pittura, una tecnica che è stata la prerogativa per eccellenza dell'arte occidentale. È ancora importante per gli artisti afroamericani confrontarsi con questa storia dell'arte assai parziale?
No, non credo ci siano limiti. C'è spazio anzi per tutte le tecniche e i linguaggi. Se guarda a David Hammons (1943), è uno dei più importanti artisti della sua generazione e ha lavorato con ogni strumento possibile, dalle ali di pollo a oggetti trovati per strada, disegni e stampe. Inoltre stiamo andando nella direzione di un abbattimento delle gerarchie e dei confini in arte. Ciò è già evidente nella cultura popolare di cinema e televisione: Scandal, Empire, Le regole del delitto perfetto, tutte queste serie televisive hanno come protagonista una donna di colore che lavora. Ed è davvero un grande momento per gli artisti di colore: il momento giusto per smettere di vederli come rappresentanti di una comunità specifica, e solo come grandi artisti.

Ritiene che sia già arrivato questo momento?
Non ancora, ma siamo vicini. E attendo con trepidazione il giorno in cui un grande artista come El Anatsui (1944), che viene da Ghana ma vive in Nigeria, non sarà più visto come un artista africano. È limitante, per questo ha rifiutato di partecipare in mostre focalizzate solo sull'arte africana, nell'interesse di confrontarsi con chi propone nuovi sguardi per concettualizzare la sua opera. È un'ansia tutta occidentale quella di classificare, mettere in una scatola e porre un'etichetta. Queste elezioni americane hanno rimesso in discussione molte criticità sociali che sembravano superate, come la storia, il razzismo e le minoranze. La retorica dell'odio e della paura di Trump mi fa pensare che non ci sia stato un grande progresso in tutti questi anni, ma sono convinto che sia utile parlarne di nuovo, per dare una scossa alle nuove generazioni e formarne lo spirito.

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