Non credo esista un'arte dei neri, ma esiste un'esperienza dei neri. Io l'ho vissuta. Ed è l'esperienza americana” ha detto l'artista Charles Alston. Una frase che troneggia all'ingresso della galleria d'arte del nuovo museo Smithsonian, il National Museum of African American History and Culture, disegnato dal celebre architetto di origine ghanese David Adjaye: un museo da 270 milioni di dollari, che con una collezione di 3.000 oggetti, memorabilia e opere d'arte racconta il contributo della comunità afroamericana all'identità del paese. Il museo, a ingresso gratuito, è prenotato fino al marzo 2017, e non è facile accedere dato il successo di questi primi mesi. Per conoscere meglio la collezione d'arte abbiamo allora intervistato Jacquelyn Days Serwer, curatrice capo del museo dal 2006, che ci ha raccontato in esclusiva cosa ha scelto e perché.
Quando ha iniziato la collezione per il museo?
Abbiamo cominciato nel 2006, quando sono arrivata a maggio. Allora il museo possedeva un solo artefatto, e molti si chiedevano se saremmo riusciti a mettere insieme una collezione di valore internazionale in così poco tempo. E ci siamo riusciti perché le persone hanno capito questo progetto e quale straordinario museo stava finalmente per vedere la luce, e hanno deciso di donarci quello che avevano, oppure offrircelo per prezzi ragionevoli. Naturalmente abbiamo comprato anche in asta. Tuttavia, più cresceva la promozione del museo e più aumentavano anche le nostre opportunità di acquisizioni dirette.
Qual è stato il primo artefatto in collezione?
Una banca ecuadoregna che raccontava la disapora più che la storia dei neri in America: comunque un argomento importante per il museo.
Il museo ha attirato subito moltissima attenzione, come avete selezionato quali erano i temi prioritari che la collezione avrebbe dovuto trattare e quindi includere?
C'è voluto un anno per decidere quali temi trattare e come organizzare il museo in linea con quali sarebbero dovute essere le singole mostre. È stato estremamente utile creare delle categorie, e ne abbiamo scelte tre: storia, comunità e cultura. Ciò ci ha permesso di capire di quali materiali avevamo necessità e verificare quali metodi di acquisto avevamo per entrarne in possesso. Parlando in specifico della collezione d'arte visiva, una delle primissime opere che abbiamo ricevuto è stata un bellissimo disegno di Jacob Lawrence. Avevamo l'ufficio ormai da un anno quando il portiere ci ha chiesto di scendere all'ingresso perché c'era qualcuno che voleva vederci. Si trattava di una coppia che aveva appena ereditato Dixie Café (1948), inchiostro su carta: ce lo hanno consegnato con gran cura, come fosse un bambino. Abbiamo avuto tanti altri momenti simili: molte persone stavano chiaramente aspettando da anni, decenni, di affidare piccoli tesori che ritenevano importanti a un'istituzione affinché potesse conversarli.
Quante opere possedete a oggi?
La collezione d'arte conta circa 140 opere, di cui il 40% in mostra. Non abbiamo lo spazio per farvi vedere tutto, e poi alcune opere sono sensibili alla luce per diverse ragioni, come il disegno di Jacob Lawrence, quindi dovranno ruotare durante l'anno. Alcune opere appese, invece, non sono nostre: sono dei prestiti cui teniamo molto perché le istituzioni da cui provengono, riunite sotto la sigla HBCUs che significa Historically Black Colleges and Universities, sono ciò che ha permesso agli artisti di continuare a lavorare e a crederci per tutti questi anni. Un numero di queste istituzioni possiede oggi collezioni importanti, costruite quando gli artisti afroamericani non godevano della stessa considerazione di oggi.
Qual è, invece, il periodo rappresentato?
Dai primi del Novecento a oggi.
Quando ho visitato la collezione, ho notato che non ha costruito un allestimento cronologico: una scelta insolita dato il valore istituzionale del progetto, e immagino programmatica per offrire una nuova lettura all'opera degli artisti afroamericani. Mi conferma?
Si, non è una rappresentazione classica della storia dell'arte. Appena si entra c'è una installazione media realizzata da diversi autori intorno alla definizione dell'identità maschile nera in America, e subito dopo una scultura in vetro di Therman Statom (1953) e la prima opera astratta, uno zigzag di strisce colorate di William T. Williams (1942). Il primo capitolo, che inizia poco dopo, è intitolato “nuovi materiali, nuovi mondi”, ed è lì che si spiega che non si possono usare le tradizionali categorie. L'abbiamo fatto intenzionalmente perché una delle ragioni per cui gli artisti afroamericani sono lasciati fuori nel canone è che la maggior parte delle mostre è organizzata per stile o cronologia, dunque è facile trascurare un lavoro, come il loro, che non risponde alle categorie che rispecchiano queste modalità. Così abbiamo individuato una nuova strategia di raggruppamento del loro lavoro. Nella prima sezione ci sono soprattutto artisti contemporanei, anche se abbiamo mescolato un po' i periodi. Vogliamo che il pubblico si dedichi a queste opere con uno sguardo fresco, perché le categorie tradizionali sono state per troppi anni una scusa per non essere inclusivi, soprattutto con gli artisti afroamericani.
Ho notato questa mescolanza tra artisti di diverse generazioni, e tra questi ho letto i nomi di Lorna Simpson (1960) e Rashid Johnson (1977), e mi sono accorta che mi suonano assai più familiari degli altri. Ritiene che questi artisti abbiano avuto più opportunità, al punto da essere equiparabili ai loro colleghi occidentali?
Credo che la strada perché ciò che dice si realizzi sia ancora molto lunga, e questo nonostante gli artisti afroamericani abbiano spesso anticipato e arricchito l'esperienza artistica contemporanea. Basta pensare a Lorna Simpson, certo, o a Barkley L. Hendricks (1945) e Alma Thomas (1891-1978) ben prima. Artisti che hanno sperimentato anche perché non avevano niente da perdere ed erano più disposti ad assumersi i rischi di uscire dalle categorie precostituite. Sono stati innovativi, perché audaci.
E il mercato ha risposto. Spesso i prezzi delle opere degli artisti afroamericani emergenti sono assai più alti di quelli di chi li ha preceduti. Come reagisce il museo a questo scenario?
Sì, ha ragione. Come museo dobbiamo avere le tasche larghe per permetterci le opere di artisti afroamericani contemporanei. Ed è per questo che siamo contenti di avere tanto successo: speriamo che tutto ciò porti anche i collezionisti a sceglierci per le loro generose donazioni.
Lei ha commissionato anche tre opere negli spazi pubblici del museo. Come ha scelto gli artisti?
L'intera squadra curatoriale è composta da tre persone, e tutti – me inclusa – avevamo in mente gli stessi artisti: forse perché erano i più adatti a un simile progetto, forse perché sono diventati negli anni dei punti di riferimento nel panorama artistico afroamericano e non. Si tratta di Sam Gilliam (1933), Richard Hunt (1935) e Chakaia Booker (1953). Li ho conosciuti in diverse occasioni, hanno un'esperienza di lungo corso e sono stati capaci di lavorare su scala monumentale. Aspetto ancora più importante: sono apprezzati tanto nella nostra comunità di riferimento, a Washington DC, come all'estero.
Organizzerà anche mostre temporanee?
Sì, nello spazio in fondo a sinistra della galleria d'arte, dove oggi si trovano Whitfield Lovell (1959), Radcliffe Bailey (1968) e Renée Stout (1958). È un corridoio speciale, devo fare ruotare le opere ogni quattro o cinque mesi per raccontare uno spaccato di scena artistica più ampia.
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