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Elezioni, l’arte si chiama dentro

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Elezioni, l’arte si chiama dentro

Wolfgang Tillmans. «Protect the European Union», 2017
Wolfgang Tillmans. «Protect the European Union», 2017

Lo scollamento tra società e politica, la mancanza di fiducia nel futuro e il frequente rifugio dei giovani nello spazio di riverbero di comunità virtuali hanno spinto artisti e curatori a scendere in campo per difendere diritti universali come libertà di espressione e uguaglianza. Ne è un esempio la 78ª Biennale del Whitney, in scena fino all’11 giugno, che riflette suo malgrado il sentimento d’incertezza e ingiustizia infuso dalla presidenza di Trump. Ma il fenomeno è globale, e offre nuovi spunti e scenari per indagare il rapporto tra identità nel sistema dell’arte e attivismo. Anzitutto, successo e impegno non sono più incompatibili, come ha dimostrato Ai Weiwei, tra i primi a sfidare la censura attraverso il canale mediatico e culturale. Rappresentato da Galleria Continua e record in asta a 5 milioni di dollari, l’artista dissidente cinese intreccia da anni dimensione politica e artistica, sfruttando senza filtri il potere visivo delle immagini, non ultima quella del bambino siriano Alan Kurdi, trovato senza vita su una spiaggia greca e assurto a simbolo della crisi europea dei migranti.

Ma dalle sale dei musei alle pagine dei social network, gli artisti si lanciano anche in campagne elettorali strutturate e non esplicitamente riconducibili ai loro lavori più noti. È il caso di Wolfgang Tillmans, oppositore della Brexit e partigiano dell’Unione Europea con poster condivisi con 77mila followers su instagram e scaricabili dal suo sito internet per la stampa. Il celebre fotografo, vincitore del Turner Prize nel 2000 e omaggiato quest’anno da due importanti retrospettive prima alla Tate Modern di Londra e adesso alla Fondazione Beyeler di Basilea, lavora con la gallerista Maureen Paley dal 1993, quando fotografava le sottoculture giovanili, ma è oggi apprezzato soprattutto per la serie dei «Freischwimmer», paesaggi astratti su carta fotografica ingranditi a parete, spesso unici, passati in asta a New York tra 300-600mila dollari in primavera. In politica, invece, sfuma lo sfondo e punta sul linguaggio come strumento narrativo per creare senso di appartenenza. Jeremy Deller, invece, destabilizza e crea ambiguità fuori e dentro il sistema dell’arte. L’artista, che ha rappresentato l’Inghilterra alla Biennale di Venezia del 2013 con un padiglione in cui mescolava realtà e finzione con psichedelia, folklore, segni culturali e parodia politica, lavora dal 1998 con la galleria Art Concept a Parigi per prezzi tra 3mila e 150mila sterline. Adesso, a pochi giorni dall’inaugurazione della sua commissione per Skulptur Projekte Münster, Deller ha accettato l’invito di Adrian Burnham alias Flying Leaps a produrre un poster per le elezioni inglesi della prossima settimana, diffuso a Londra in forma anonima e stile guerrilla marketing. Lo slogan di Deller è una scritta su sfondo neutro che si appropria del linguaggio di strada con le parole cardine della retorica di Theresa May: niente orpelli né giri di parole, dice «strong and stable my arse» (forti e stabili un cavolo, ndr).

Pratica artistica e attivismo si intrecciano nel lavoro del turco Ahmet Ögüt, che crea dispositivi artistici sovversivi ma anche progetti collaborativi e solidali. Come «The Silent University», un’iniziativa che ha fondato nel 2012 e offre una piattaforma di scambio, conoscenza e studio ai rifugiati. Ögüt, che ha iniziato a collaborare con KOW a Berlino con opere a prezzi da 30mila euro, è anche tra gli artisti che hanno portato a Venezia le istanze più scottanti della società contemporanea. Per il primo NSK State Pavillion, un progetto artistico utopico che emette passaporti transnazionali, l’artista ha realizzato una struttura inclinata che rende la visita alla mostra destabilizzante. Più tradizionale nella forma ma ugualmente apocalittico e inquietante è il padiglione americano di Mark Bradford, rappresentato da Hauser & Wirth e in gallerie a prezzi da 45mila dollari per opere edizionate. Turbato dal potere distruttivo dall’uragano Katrina, dall’enfasi sulla paura e dai crescenti episodi di razzismo e violenza, l’artista afroamericano ha concepito una metafora cupa della società Usa centrata su un Campidoglio tragico, organismi cellulari trasfigurati e soffitti cadenti.

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