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Beirut, dove l’arte è una lezione di sopravvivenza

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Beirut, dove l’arte è una lezione di sopravvivenza

«Tapestry: Untitled», 2013 di Etel Adnan, wool, nella mostra «Home Beirut Sounding the Neighbors» al Maxxi di Roma con 36 artisti libanesi, fino al 20 maggio
«Tapestry: Untitled», 2013 di Etel Adnan, wool, nella mostra «Home Beirut Sounding the Neighbors» al Maxxi di Roma con 36 artisti libanesi, fino al 20 maggio

In Libano l’arte contemporanea ha casa a Beirut, una città che dopo anni di guerre – la prima tra il 1975-1990 e la seconda tra 2005-6 – è oggi una delle poche zone relativamente sicure e in crescita del Medio Oriente ed è ormai anche il cuore nevralgico della scena artistica del Mediterraneo. Ed è così che il MAXXI di Roma ha deciso di celebrarla con una mostra a cura del direttore artistico Hou Hanru e della curatrice Giulia Ferracci dal titolo «Home Beirut. Sounding the neighbors», con 36 artisti, musicisti, performer e cineasti, come Akram Zaatari, che ha rappresentato il Libano alla 55ª Biennale di Venezia, o Etel Adnan, scoperta a Documenta 13.

«Beirut è molto più della capitale del Libano, è una città-regione ed è estremamente cosmopolita – spiega Hou Hanru, e aggiunge – molti rifugiati sono tornati negli ultimi 15 anni, altri sono arrivati dalla Siria come racconta l’opera in mostra di Zaatari, ma la guerra non è mai finita, ha solo assunto forme più invisibili». A livello urbano, accanto a luoghi della memoria come il grattacielo non finito e crivellato di proiettili Burj al Murr, sono sorti nuovi edifici che riflettono l’eclettismo culturale di oggi, firmati da famosi architetti libanesi come Bernard Khoury – che in mostra immagina con Walid Raad un museo sotterraneo, l’arte conservata nelle viscere della città – e dalle archistar da Arata Isozaki a Jean Nouvel.

«Vivere a Beirut significa stare nel ricordo della paura di perdere la propria casa e simultaneamente partecipare al processo di ricostruzione, abbracciando nuove sfide come la gentrificazione e l’obliterazione delle memorie collettive» spiega Hanru. Da qui la decisione di dividere la mostra in capitoli che rispecchiassero non tanto le generazioni quanto i pensieri e le necessità: la memoria e l’archivio, la città, l’idea dell’altro e la differenza. Con opere in cui la città diventa uno laboratorio particolare per parlare di questioni universali come il flusso delle merci nel capitalismo globale, affrontato con un calco in carta carbone di un container a opera di Caline Aoun, la feticizzazione dei manufatti storici nel video di Ali Cherri, l’attraversamento del mare senza conoscere il proprio destino, nel video di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige, la quotidianità della guerra nei fumetti botta e risposta tra madre e figlio, gli artisti Laure Ghorayeb e Mazen Kerbaj. Opere che raccontano Beirut, ma anche una condizione esistenziale contemporanea ed è ciò che dà rilevanza internazionale a queste opere.

«Abbiamo svolto 150 studio visit in tre viaggi, e scelto un approccio rizomatico, per meglio cogliere le idee sottostanti alle diverse ricerche artistiche, nell’intenzione di completare il panorama offerto dalle gallerie commerciali» prosegue Giulia Ferracci. Una scena commerciale, solida e in espansione, che offre ottimi spunti. Sfeir-Semler, che rappresenta oggi artisti rinomati come Walid Raad/the Atlas Group, Mounira Al Solh, Akram Zaatari e Rayyane Tabet, ha inaugurato pochi giorni dopo l’assassinio del Primo Ministro libanese nel 2005, in un clima di forte incertezza, ma adesso è un’istituzione, partecipa ad Art Basel e ha una succursale anche ad Amburgo. Nel 2015, accanto a molte altre gallerie, si è aggiunta Marfa’ Project, fondata da Joumana Asseily con la vocazione di accompagnare gli artisti nel mercato ed educare i collezionisti a opere concettuali e in media diversi. I prezzi sono bloccati tra 5-15mila euro per abbracciare un pubblico ampio, ma gli artisti sono già famosi, e tra questi spiccano appunto Caline Aoun, Deutsche Bank’s Artist of the Year 2018, e Vartan Avakian, vincitore dell’Abraaj Group Art Prize 2013, entrambi nella mostra del MAXXI.

Accanto alle gallerie, sostenute dal 2010 dalla Beirut Art fair, la città offre un’interessante scena istituzionale che è stata determinante per la promozione della scena libanese con curatori e collezionisti locali e stranieri. «Durante i nostri viaggi siamo andati a scoprire l’eredità lasciata da spazi non profit come 98Weeks Research Project e l’importanza di rassegne come “Home Works”, oggi alla 7ª edizione, un forum curato dall’influente direttrice di Ashkal Alwan, Christine Tohme» continuano i curatori. Inoltre, pur mancando un museo pubblico, i progetti istituzionali di qualità sono numerosi: tra questi c’è the Arab Image Foundation, arrivata nel 1997, e Beirut Art Center, nel 2009. Spazi vivaci, capaci di creare comunità e aperti alla sperimentazione, che convivono oggi con musei privati come Sursock e Aïshti Foundation di Tony Salame. «E poi Beirut è una città di media grandezza, dove tutti si conoscono e si ritrovano in quartieri come Mar Mkayel Nahr e al bar Torino Express a Gemmayzeh». Per conoscere la scena artistica di Beirut bisogna uscire dalle gallerie e perdersi nella città, che Hanru definisce «una straordinaria lezione di sopravvivenza».

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