Se Trump vuole costruire un muro tra Usa e Messico, l’arte, invece, favorisce il dialogo e raccoglie i suoi frutti. Secondo un report dell’organizzazione privata non-profit Los Angeles County Economic Development Corporation, la mostra «Pacific Standard Time: LA/LA» (settembre 2017-gennaio 2018) incentrata sul dialogo tra l’arte di Los Angeles e quella latina e finanziata dal Getty con 16,3 milioni di dollari ha fruttato all’economia locale 430,3 milioni di dollari e 4.000 posti di lavoro. I visitatori delle 70 istituzioni coinvolte sono stati 2,8 milioni, tra cui tanti giovani (il 40,3% aveva meno di 34 anni). Significativo anche l’impatto sul turismo: tre quarti di quasi un milione di visitatori della California meridionale ha indicato nella mostra il motivo principale del loro viaggio. In totale hanno speso circa 192,6 milioni di dollari.
La mostra rientra in una serie di iniziative promosse dal Getty dal 2002 per fissare la California sulla mappa dell’arte contemporanea e far apprezzare appieno il suo contributo nella pratica artistica contemporanea, a partire dalle famose accademie e dai movimenti dei turbolenti anni ’60 e ’70. Si pensi all’arte dell’assemblaggio di Ed Kienholz, di recente celebrato dalla Fondazione Prada; alla Pop Art di Ed Ruscha, ora in mostra al Louisiana Museum in Danimarca con più di 50 opere su carta dalla collezione di Ubs, e di David Hockney, per il quale è appena stato segnato il record di 28,5 milioni di dollari a New York. Oppure a John Baldessari per l’arte concettuale, al Postminimalismo di Bruce Nauman, al movimento Light and Space di Robert Irwin, James Turrell e Maria Nordman, all’arte femminista di Judy Chicago e Miriam Schapiro, agli anni ’80 e ’90 con Mike Kelley e Paul McCarthy e all’arte delle comunità marginalizzate.
Anche oggi l’arte in California è profondamente influenzata dall’attivismo politico e dal tema della convivenza di etnie e culture diverse. La biennale «Made in LA», che apre in questi giorni all’Hammer Museum, mira a restituire uno spaccato di questa produzione, con opere per la maggior parte fresche di atelier.
«Los Angeles ha sempre apprezzato il fai-da-te, l’idiosincratico, il libero pensiero e la produzione visionaria» dichiara Kurt Mueller, direttore da David Kordansky Gallery. «Anche le industrie locali, per tradizione aerospaziali e dell’intrattenimento, hanno influenzato l’arte». E ancora: «La geografia – prosegue il gallerista –, fisica e psicologica, gioca un ruolo: lo spazio esteso, il sole e le ombre, ma anche il senso di possibilità senza orizzonte che esiste alle estremità del continente. Sebbene la storia qui sia relativamente nuova, gli artisti di Los Angeles imparano da altri artisti locali, spesso letteralmente a scuola, ma anche come tradizione condivisa di pensare e fare». Emblematici i nomi di Will Boon e Torbjørn Rødland, in mostra da oggi nella galleria a Los Angeles, rispettivamente con prezzi da 12.000 a 90.000 dollari e da 14.000 a 28.000. «Rispettivamente del Texas e dalla Norvegia, ma di base a Los Angeles, producono un lavoro inquietante, iconico, viscerale, che definisce il momento attuale a Los Angeles». Rødland sta vivendo un momento d’oro sul mercato, spinto anche dalla mostra all’Osservatorio Prada.
Un’altra artista in crescita è Laura Owens, fresca di una personale al Whitney (ottobre 2017-gennaio 2018) che ha avuto effetto immediato sulle sue quotazioni: da Sotheby’s a novembre un dipinto stimato 300.000 dollari è passato di mano a 1,8 milioni. Per anni sottovalutata, nonostante il suo approccio alla pittura innovativo e influente per gli artisti della sua generazione, è entrata in collezioni private come quelle di Maja Hoffman, François Pinault, Peter Brant e dell’avvocato milanese Giuseppe Iannaccone. Le tele partono da 75.000 dollari. Altri artisti interessanti sono Jay Stuckey, definito un “incrocio” tra Twombly e Basquiat, e Matt Lipps, che trasforma fotografie storiche in forme scultoree facendo leva sulle immagini conservate nella nostra memoria collettiva (a partire da circa 4.000 dollari da Aperture NY).
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