Walter Guadagnini esperto di storia della fotografia e di cultura pop italiana e mondiale, dal 2016 è direttore di CAMERA, Centro Italiano per la Fotografia (Torino). Nel 2004, quando era direttore della Galleria Civica di Modena, ha esposto gli artisti della Pop Art inglese e alcuni di questi saranno presenti nella prossima mostra «CAMERA POP. La fotografia nella Pop Art di Warhol, Schifano & Co», dedicata ai rapporti tra fotografia e Pop Art.
Qual è il valore artistico della Pop Art inglese?
Il valore primario è innanzitutto cronologico, poiché i fondamenti della Pop Art vengono posti in Inghilterra già nella seconda metà degli anni Cinquanta: il celeberrimo collage di Richard Hamilton «Just what is it that makes today’s home so different, so appealing», dove appare per la prima volta la scritta “Pop” e dove si trovano già tutti gli elementi costitutivi dell’estetica della Pop mondiale, è del 1956.
Quali le differenze tra la Pop Art inglese, americana e italiana?
Innanzitutto, la pittura stessa: quella inglese è ancora tutto sommato classica, attenta a valori pittorici tradizionali, mentre quella americana sembra quasi ricercare una pittura fredda, esplicitamente riferibile ai valori dell’immagine riprodotta meccanicamente. Gli autori italiani – e quelli romani in particolare – rendono Pop il paesaggio nel quale vivono, quindi ci sono meno immagini relative ai prodotti di consumo e molte più ispirate ad esempio ai capolavori del passato, che a loro volta sono finite nel tritacarne della comunicazione di massa, che è uno dei veri motori primi della nascita della Pop Art.
Chi ha sostenuto la Pop Art inglesein Italia?
A livello istituzionale è praticamente inesistente, credo non ci sia un’opera inglese importante nelle collezioni pubbliche italiane, a parte qualche rarissima opera grafica. A livello privato ci sono alcuni rari collezionisti, appassionatissimi e informatissimi, ma è davvero un fenomeno di nicchia. Tra le gallerie, nel capoluogo lombardo la Galleria Milano di Carla Pellegrini e lo Studio Marconi di Giorgio Marconi hanno presentato alcuni di questi autori al loro meglio e negli anni giusti, cioè la seconda metà degli anni ’60, mentre l’Ariete di Beatrice Monti ha esposto Hockney sempre in quegli anni.
C’è ancora un potenziale di crescita?
Si tratta di un mercato particolare, molto legato al suo luogo d’origine, un po’ come quello della Pop italiana. Certo è che negli ultimi anni non solo maestri come Allen Jones, ma anche autori come Gerald Laing, Anthony Donaldson, Pauline Boty, considerati come di secondo piano, hanno raggiunto, per i loro capolavori dei primi anni ’70, cifre davvero ragguardevoli. La maggior parte di questi autori negli anni ’60 ha prodotto abbastanza poco, mentre nei ’70 alcuni hanno aumentato di molto la produzione, dando vita a differenze di prezzo notevoli, come nel caso ad esempio di Peter Phillips. Certo, per paradosso, i due più premiati dal mercato sono a livello nazionale Patrick Caulfield e a livello internazionale David Hockney, forse i meno Pop di tutti.
Quali sono ancora sottovalutati?
Personalmente, continuo a pensare che per la qualità del lavoro artisti come Hamilton e Blake siano paurosamente sottovalutati, ma si sa che il mercato segue altre logiche. Lo stesso Tilson, che proprio quest’anno compie 90 anni e che alla fine degli anni ’60 ha realizzato opere formidabili, è a mio vedere ancora meritevole di una crescita. Ci sono poi i casi di R.B. Kitaj, Peter Phillips e Richard Smith, che a causa di una gestione poco oculata della loro immagine hanno per così dire sperperato quei valori che avevano raggiunto negli anni dai ’60 agli ’80, ma la materia prima del loro lavoro per più di un ventennio è davvero di primissima qualità.
© Riproduzione riservata