Dall’inizio degli anni ’80 Massimo Cirulli colleziona manifesti d’epoca. Da quest’anno li espone all’interno di mostre multimediali nella nuova Fondazione Massimo e Sonia Cirulli, creata a Bologna nell’edificio progettato nel 1960 da Achille e Pier Giacomo Castiglioni per Dino Gavina.
Come s’inquadra questa raccolta nella sua collezione?
Sono convinto che l’arte sia totale e che tutti i mezzi espressivi siano fondamentali per narrare la modernità e la nascita del Made in Italy. Non si può pensare ad una mostra sul Novecento senza ricreare lo “Zeitgeist”. La collezione consta di alcune migliaia di manifesti che insieme a dipinti, sculture, disegni progettuali, fotografie e fotocollage, libri e riviste, sono in grado di restituire lo spirito del tempo.
Qual è l’importanza del manifesto?
Mi piace dire con i Futuristi che i manifesti pubblicitari hanno trasformato le strade della città moderna in musei a cielo aperto. Indubbiamente il loro valore è quello di essere lo specchio tempi. Agli inizi del Novecento, artisti come Hohenstein, Metlicovitz, Cappiello e Dudovich davano lustro alla ricca borghesia attraverso l’eleganza del liberty; nel primo dopoguerra, Balla, Sironi, Boccasile e Munari reclamizzavano uno stile di vita autarchico e, con la ricostruzione e il boom economico, Grignani, Munari, Nizzoli e Pintori erano gli interpreti del nuovo benessere. In ogni caso il messaggio era efficace e l’immagine molto curata, così come la scelta del carattere tipografico, per suscitare curiosità e interesse.
Colleziona solo manifesti italiani?
Sì, sono anche i più rari.
Quando ha iniziato a collezionarli?
Negli anni Ottanta, negli Stati Uniti. Era piuttosto raro trovarne di italiani. Tornato in Italia sono entrato in contatto con gli eredi di alcuni degli artisti che avevano lavorato per Ricordi e ho avuto la possibilità di acquisire una grande quantità di materiale.
L’ultimo acquisto?
Sei mesi fa un rarissimo manifesto per il film “Cabiria”, il primo kolossal italiano, che ho battuto contro un collezionista newyorkese e uno parigino. I manifesti importanti compaiono raramente, ormai.
Ad un neofita che cosa suggerisce?
Innanzitutto di cercare la qualità rivolgendosi a un rivenditore serio e essere disposto a pagare una certa cifra. Di diffidare dall’affare e da eBay, che per i manifesti è una macchina infernale. Naturalmente parlo dei manifesti d’epoca.
Con quali cifre si acquista?
Dai 200-300 euro fino a svariate decine di migliaia. Il prezzo lo definisce senz’altro la rarità, ma anche l’autore, l’anno, le dimensioni e lo stato di conservazione.
Lei guarda più alla rarità o all’estetica?
Alla qualità grafica.
Un manifesto da acquistare con poco?
Quello di Bertaux per “Alemagna” del 1950 con l’angelo e il panettone. Da 1.000 euro.
Qual è il valore artistico del manifesto?
È il connubio di arte e storia industriale italiana. Il manifesto pubblicitario di qualità ha una grande capacità evocativa e di persuasione. A volte il prodotto neanche compare, come nel caso della birra Metzger, di una modernità dirompente, realizzato nel 1924 da Diulgheroff, dove campeggia una gigantesca M, oppure nel caso di Seneca che nel 1922 studia la pubblicità per la “pastina glutinata Buitoni” dove l’unico riferimento alla pastina è il riflesso del vapore che sale sul volto, astratto e futurista di un bambino, una trovata travolgente.
Il manifesto mantiene il valore?
Sì, mantiene il valore, anzi lo aumenta sensibilmente. Oltre al valore economico, ce n’è uno documentario non meno importante e uno più personale, che è dato dal senso di piacevolezza che suscita in noi il guardarlo.
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