Chi va a vedere la prima mostra in Italia del gruppo israeliano Public Movement da Vistamarestudio a Milano (fino al 15 dicembre) trova la galleria vuota. La mostra, che è anche la prima del gruppo in uno spazio commerciale, è una performance di 20 minuti che unisce nuovi e vecchi lavori e si svolge solo il sabato su prenotazione. Ma allora che cosa vende la galleria? Le azioni stesse, in edizione di tre o cinque a prezzi tra 8.000 e 15.000 euro. Può sembrare singolare, ma oggi non lo è affatto. La performance è il mezzo espressivo del momento. Bombardati dalle immagini, offre la possibilità di vivere un’esperienza che rimane indelebile nella memoria. La vediamo nei musei, nelle biennali e anche il mercato si avventura sempre più spesso in questo ambito, nonostante la sua natura effimera. Ma è anche vero che si sente l’esigenza di codificare questo mercato, come lo è stato per la fotografia e il video. Proprio con questa idea è nata lo scorso settembre una nuova piattaforma a Bruxelles, chiamata A Performance Affair (7-9 settembre). «La performance è ovunque – dichiarano i fondatori Will Kerr e Liv Vaisberg, – eppure gli artisti e le gallerie faticano a sostenerla. Noi affrontiamo questo tema e stimoliamo i collezionisti a comprarla». Durante l’evento sono state vendute alcune opere: Laurence Vauthier, francese, classe 1993, presentata dalla galleria Un-spaced, ha venduto cinque livelle utilizzate nella sua performance «Added Value», per le quali ha deciso il prezzo a seconda di quanti minuti riusciva a tenere le livelle in equilibrio sul braccio – un riferimento ironico al sistema di valutazione delle opere d’arte. Lavorare con opere tanto evanescenti non impedisce agli artisti di fare carriera. La rumena Alexandra Pirici non ha una galleria, ma nonostante ciò ha rappresentato il suo paese alla Biennale di Venezia (2013), ha partecipato a Skulptur Projekte Münster (2017), ha esposto in musei come il Pompidou, la Tate, il New Museum. Tra i suoi lavori «Parthenon Marbles», in collezione alla Fondazione Kadist, una performance ideata come un “derivato” che ha come asset sottostante le sculture in marmo presenti nella collezione del British Museum e oggetto di una controversa richiesta di rimpatrio. Il loro valore immateriale è “trasferito” nei corpi degli interpreti, che assumono le sembianze delle statue, dialogano di problemi finanziari e stabiliscono le condizioni in base alle quali possono riapparire: compenso minimo; tra i performer tre su cinque devono avere un legame con la Grecia; se eseguito in un’istituzione in Gran Bretagna, le fee devono essere calcolate come una percentuale dei benefici economici che questi oggetti portano con sé. Ma il modo più semplice e più diffuso per vendere le performance rimane la cessione di fotografie, video e oggetti che derivano dall’azione. Per esempio alla Galleria Raffaella Cortese di Milano si è appena chiusa una mostra di Simone Forti, 83 anni, in cui erano esposti video di performance sia storiche che recenti a 4.000 dollari in edizione aperta.
Ma il modo più semplice e più diffuso per vendere le performance rimane la cessione di fotografie, video e oggetti che derivano dall’azione. Adesso è stata inaugurata la mostra di un altro performer, Marcello Maloberti, per il quale ha mostrato interesse anche il Pecci. «Il Centro Pecci ha in più occasioni proposto la performance – spiega Stefano Pezzato, responsabile dell’area artistica – per questo stiamo cercando di acquisire alcune azioni performative che abbiamo esibito, come «Come out and play with me» (2004) di Michael Fliri, riproposta a Prato nel 2017, e la più recente «RAID» di Marcello Maloberti, realizzata nell’ottobre 2018 per la giornata del Contemporaneo».
«Al momento – prosegue Pezzato – queste performance sono concesse in comodato, sotto forma di prestito a lungo termine, ma stiamo definendo i diversi aspetti che comportano un loro eventuale acquisto definitivo, tra cui la riattivazione da parte di altri performer, o l’utilizzo di oggetti che fanno parte dell’azione, come nel caso di «Senza titolo» del 1992 di Fabio Mauri, riattivata a Prato nel 2017 e, non da ultimo il valore economico da attribuire a questa forma intangibile di arte».
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