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Dossier Podemos parla spagnolo e sogna in greco

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Dossier | N. 4 articoliEuropa, da Nord a Sud avanzano i populismi

Podemos parla spagnolo e sogna in greco

Partiti anti-sistema o anti-euro. Stanno ridisegnando la mappa politica dell’Europa assieme alla crisi economica. Il trionfo di Syriza è coerente con quanto si è visto alle europee di maggio e potrebbe avere ripercussioni in altri Paesi, a cominciare dalla Spagna, prima puntata di un’inchiesta che si occuperà anche di Gran Bretagna e Francia.

Il Regno Unito andrà alle urne in maggio e l’ascesa di Ukip, il partito anti-europeista di Nigel Farage, rischia di trasformare il voto in un referendum anticipato sulla permanenza o meno di Londra nell’Unione europea.

La Francia non ha scadenze elettorali più importanti, ma è il Paese nel quale un partito della destra radicale e anti-euro, il Front National di Marine Le Pen, è stabilmente in testa nei sondaggi dalla scorsa primavera.

Davvero può accadere? Davvero Podemos può riuscire a conquistare il governo in Spagna? Il movimento che ha raccolto la rabbia degli indignados sparsa nelle piazze spagnole può davvero replicare il trionfo di Syriza in Grecia? I sondaggi di oggi dicono che i numeri ci sono, che Podemos, dopo aver conquistato a sorpresa l’8% alle elezioni europee, è diventato la prima forza del Paese con oltre il 28% delle intenzioni di voto. Conservatori e socialisti seguono staccati, con poco più del 20 per cento: dopo trent’anni di alternanza alla Moncloa, rischiano di essere travolti dalla protesta anti-casta, dalla voglia di rinnovamento, dalle rivendicazioni democratiche di cittadini stremati dalla crisi economica e frustrati dalle conseguenti, odiatissime misure di austerity introdotte dal governo del popolare Mariano Rajoy e ancora prima da quello di José Lusi Zapatero.

«Più persone e meno banche, la rivoluzione è già iniziata. La vittoria di Syriza in Grecia - dice Pablo Igleias, 36 anni, leader di Podemos - è un messaggio molto chiaro per il governo di Rajoy : tic-tac, tic-tac, è iniziato il conto alla rovescia, presto conquisteremo il governo».

A fine marzo si voterà in Andalusia, la più grande regione del Sud, da sempre guidata da giunte di sinistra: lì si giocherà il futuro dei socialisti di Pedro Sanchez, il nuovo segretario, 42 anni, una sorta di Renzi di Spagna, meno gigione ma non meno deciso nel mandare a casa la vecchia guardia del suo partito, o di quello che del Psoe era rimasto.

Il 27 settembre le urne si apriranno in Catalogna per una consultazione che avrà tutto il sapore e il senso politico di un nuovo referendum per l’indipendenza della comunità autonoma più ricca del Paese. Sarà uno scontro - anche personale, quasi fisico, probabilmente decisivo - tra il governatore catalano, Artur Mas e il premier Rajoy. E lì si decideranno in un solo colpo le sorti della Catalogna e il futuro stesso dei popolari, almeno come partito di governo.

Le amministrative di due regioni chiave come Andalusia e Catalogna, daranno molte indicazioni nella lunga campagna elettorale che porterà alle elezioni di novembre per rinnovare il Parlamento nazionale. La Spagna che a metà del 2012 si è salvata dal default grazie soprattutto alla stabilità del proprio sistema di governo, oltre che al prestito di 41 miliardi dell’Unione europea, deve ora affrontare una nuova, se possibile, più turbolenta stagione politica.

Per popolari e socialisti l’avversario da battere è Podemos. E questa già è una mezza vittoria per gli indignati. «Le false promesse non possono risolvere i problemi del Paese, finiscono per generare nuove tensioni sociali», spiega Rajoy parlando di Syriza perché Podemos intenda. «Siamo noi la vera alternativa a Rajoy. Cambiare tanto per cambiare è spesso dannoso», ripete il socilista Sanchez marcando le differenza tra la Grecia e la Spagna.

Nel governo di Madrid, dopo anni difficilissimi, cresce la sensazione che sarà qualcun altro a godere dei benefici del «lavoro sporco che qualcuno però doveva fare», come dice un influente advisor del governo. «È strano constatare - dice lo stesso consigliere, vicino a Rajoy - come questi movimenti di protesta contro i partiti tradizionali e contro il nostro governo che trovano la loro origine nelle difficoltà che la gente ha dovuto affrontare nella lunga crisi economica e si nutrono di promesse e populismo, stiano montando porpio ora che i fatti ci danno ragione, ora che la ripresa nel Paese si sta rafforzando più che in ogni altra economia europea».

Rajoy e i suoi hanno introdotto riforme profonde come quella del mercato del lavoro, hanno dovuto ristrutturare il sistema bancario, risanare il bilancio pubblico. Ora, in questo anno elettorale si aggrappano ai dati economici, alla ripresa che è finalmente arrivata e si fa sentire anche nell’occupazione, nella vita delle famiglie. Dopo essere cresciuta dell’1,7% nel 2014 la Spagna potrebbe andare anche meglio nel 2015. «Per quest’anno abbiamo previsto un aumento del Pil del 2% ma se petrolio e cambi rimangono a questi livelli, avremo una crescita aggiuntiva di 0,5 punti. È una stima prudente, potremmo arrivare al 2,5 per cento», ha spiegato ieri il ministro dell’Economia, Luis de Guindos. Per il lavoro il 2014 è stato di certo l’anno della svolta: si è chiuso con quasi mezzo milione di disoccupati in meno e un tasso di disoccupazione del 23,7%, ancora altissimo ma oltre due punti percentuali più basso rispetto ai picchi della crisi. Perfino dal settore immobiliare, che con lo scoppio della bolla speculativa è stato una delle principali cause del travaglio spagnolo, arrivano segnali incoraggianti: riprendono i lavori, gli investimenti e si torna a cercare manodopera: 40mila i nuovi addetti nel 2014 dopo sette anni di tagli agli organici.

La Spagna non è la Grecia - sono tutti d’accordo su questo, popolari, socialisti e anche Podemos - ma sono ancora quasi cinque milioni e mezzo gli spagnoli senza lavoro. La ripresa c’è ma le conseguenze della recessione sono ancora più forti, più evidenti. I socialisti potrebbero essere già stati superati nel processo di rinnovamento. Mentre i popolari di Rajoy - sempre fedeli alla linea dettata da Bruxelles su indicazione di Angela Merkel - temono di essere puniti in nome dell’Europa, la loro migliore alleata negli ultimi anni, dalla quale avevano accettato anche un salvataggio soft, una presenza continua ma discreta della troika. Quell’Europa «delle banche e senza democrazia» - secondo la definizione di Iglesias - che molti spagnoli, come molti greci, vogliono cambiare. E giorno dopo giorno Podemos sta alimentando la speranza che «sì, si può fare». Resta da stabilire come.

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