LONDRA - La dolorosa sensazione di essere costretti fra il martello nazionalista e l’incudine populista, accompagna il partito conservatore di David Cameron e quello laburista di Ed Milliband verso le più incerte elezioni della recente storia politica britannica. Il 7 maggio promette di essere giornata di record.
Primato del malcontento verso le forze storiche, in marcia verso la spartizione di un bacino di voti prosciugato oltre ogni aspettativa dall’avanzata della destra eurofoba, marcatamente populista, che porta i colori giallo-viola dell’United Kingdom Independence party di Nigel Farage e dal balzo dell’Snp, la sinistra nazionalista scozzese. A complicare le cose s’è aggiunta anche la timida avanzata dei Verdi, che miete nelle fila del Labour, ma non disdegna il consenso Tory.
Se nel 1950 i due partiti egemoni si dividevano il 97% dell’elettorato oggi arrivano appena al 65 per cento. Assistiamo all’impazzimento del pendolo che per decenni ha scandito l’alternanza a Downing street e tanto basta per spingere i più intimoriti a evocare lo spettro della frammentazione, minaccia che fa sorridere se calibrata con quella a cui siamo abituati in Italia. Eppure è una dinamica capace di trasformare in norma quella che si considerava un’eccezione, oltre la Manica. La parola coalizione nel lessico politico del Regno, infatti, pareva essere la comparsata di una stagione unica come fu quella del 2010, quando David Cameron vinse, ma per formare un esecutivo ebbe bisogno dei LiberalDemocratici di Nick Clegg. Pochi oggi credono che dopo il 7 maggio sarà possibile un monocolore conservatore o laburista.
I sondaggi sono volubili. Alla domanda di YouGov “preferite affidare il Paese a un governo a guida Tory con David Cameron o a guida Labour con Ed Miliband?” passa di cinque punti il primo. Se la domanda è, invece, quella tradizionale sulle intenzione di voto il Labour – per YouGov - è secondo di un pugno di voti, di fatto alla pari. A far la differenza sono gli elettori dell’Ukip che dinnanzi all’alternativa secca optano per l’esecutivo uscente.
Oggi il partito di Nigel Farage è la terza forza con circa il 15% dei voti, avendo scalzato i LibDem ridotti a meno del 7 percento più o meno come i Verdi. Eccentrica la dinamica nei collegi di Scozia dove i nazionalisti, secondo un poll della televisione locale, sono al 52%, mentre i Labour al 23 che tradotto in seggi significa il tracollo del partito di Ed Miliband. Si troverebbe “ristretto” a quattro deputati oltre il Vallo a fronte degli attuali quarantuno. Se la Scozia dovesse confermare l’inclinazione nazionalista la rincorsa del Labour sui Tory non avrebbe alcuna chance di vittoria a Westminster.
Lo scenario del consenso è magmatico, ma la sensazione che non possa emergere un vincitore netto è evidente. Il sistema elettorale – first past the post – e la mappa dei diversi collegi protegge il bipartismo e tutela grandemente i LibDem che potrebbero prendere molti più deputati, ma molti meno voti dell’Ukip. Tutto ciò non basta per affermare che si andrà certamente a una riedizione del governo uscente o verso una più naturale coalizione Lib-Lab. Le “quarte e quinte forze” sono una realtà tale da poter sovvertire oltre ogni aspettativa l’esito del voto. Tanto da suggerire a molti osservatori che nel 2015 le urne si apriranno due volte: “primo grado” in maggio e appello a strettissimo giro se non sarà possibile formare un esecutivo. Le coalizioni con populisti e nazionalisti non sono impossibili, ma schiaccerebbero i due maggiori partiti sul fianco estremo. Sollecitato più volte, David Cameron non ha escluso un patto con Nigel Farage incassando analogo no comment. I nazionalisti scozzesi hanno fatto un’esplicita avance al Labour, garantendo il loro sostegno esterno a un esecutivo di minoranza. Nel primo scenario Londra si troverebbe con molto più di un piede fuori dall’Unione europea perchè a tutt’oggi solo l’addio all’Ue è punto fermo e chiaro dell’abborracciato programma dell’Ukip. Nel secondo scenario, il Labour dovrebbe fare concessioni estreme alla Scozia, spingendo il Paese verso un federalismo tanto radicale da minacciare l’implosione del delicatissimo equilibrio istituzionale del Regno. La crisi in occasione del referendum di settembre ha dimostrato quanto il precipizio sia vicino.
Svolte epocali in entrambi gli scenari successivi a un voto che – la storia insegna – ha nell’economia l’elemento chiave. Quando i tempi sono difficili i britannici si rivolgono ai Tory, quando chiedono più equità si rivolgono al Labour. L’arrivo al potere ha coinciso largamente con un pendolo sincronizzato su questi ritmi, ma oggi la percezione della congiuntura è mutevole. L’immagine macroscopica ferma la curva di un pil che – nonostante il rallentamento del quarto trimestre 2014, con “solo” più 0,5% – ha chiuso l’anno solare in progressione del 2,6%, performance sconosciuta a qualsiasi Paese europeo. La realtà minuta è differente e racconta di un incolmabile gap fra il ricco sud-est e le sacche di povertà ed emarginazione che punteggiano il nord, di un’economia che stenta a liberarsi dalla centralità dei servizi finanziari e dalla spinta dei consumi interni. Imbalances nel sistema continuano ad esistere nonostante i segnali positivi che arrivano da nuovi settori a cominciare dalla cosiddetta “economia della creatività” e la diversa percezione di esse porta le classi medie a dividersi fra chi invoca ancora un “gendarme” con la silhouette Tory e chi, sentendo la necessità di una gestione più sociale della crescita, vuole affidarsi al Labour.
Su tutto pesa l’incognita europea, caleidoscopio di sentimenti che muovono dalla grettezza provinciale da Piccola Inghilterra, alla confusione fra la nostalgia per una grandeur perduta, l’ambizione di recuperarla e la tutela estrema dell’interesse nazionale, cieco ad ogni forme di visione unitaria. Un governo Tory porterebbe Londra al referendum sull’adesione, passo estremo, a nostro avviso, figlio di un azzardato cinismo politico con – in caso di Brexit - conseguenze devastanti per Londra e per l’Unione. Se, poi, David Cameron fosse costretto ad allearsi con l’Ukip, a quel referendum dovrebbe andarci di corsa, rinunciando alle cautele che, sia nel negoziato con l’Ue sia nella propaganda interna, i conservatori promettono di avere. Anche i LibDem si sono ormai arresi all’idea della consultazione sull’Ue, solo i laburisti restano contrari.
Il sentimento dei britannici verso l’Europa s’è radicalizzato per via della crisi dell’euro che li ha convinti del loro scetticismo, per via di Schengen a cui non partecipano e che considerano strumento capace di agevolare fenomeni di migrazione incontrollata, per via della battente campagna della stampa vicina a Rupert Murdoch visceralmente contraria a forme avanzate di integrazione. Su tutto ciò s’è innescata la figura di Nigel Farage che nel relativo vuoto di personalità della politica – nè David Cameron nè Ed Miliband sono esempi di carisma - ha occupato la scena con le esemplificazioni della demagogia, avvolte in una discreta capacità oratoria. Per questo avanza, anzi galoppa, ma senza poter sfondere del tutto.
La trincea ultima, lo abbiamo detto, resta un sistema elettorale fortemente iniquo, che premia i grandi e falcia i più piccoli. È ancora buono per arginare l’Ukip ma non più per garantire un governo. Instabilità british style è la nuova parola d’ordine nel Regno, sconosciuta e proprio per questo ancor più temuta.
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