Al netto dell'overdose di applausi che lo hanno scandito, il discorso d'investitura del presidente Mattarella è stato tagliato, come ci si poteva attendere, sul suo profilo: quello di uno studioso di diritto costituzionale, ma anche quello di un uomo pubblico che ha attraversato con consapevolezza la crisi del nostro sistema politico e più in generale la crisi di transizione dell'Europa e del mondo.
Perché saranno anche sette anni che Sergio Mattarella non parla per il pubblico, ma certo ha visto e ha ascoltato quel che accadeva intorno a lui e l'ha fatto da un osservatorio per tanti versi privilegiato e al tempo stesso interno ed esterno alla nostra vita politica come è la Corte costituzionale.
Ciò che ha visto più di tutto e probabilmente molto da vicino (anche se la sua riservatezza gli detta sempre parole misurate) è il dramma di un Paese che soffre, dove la povertà si diffonde, in cui la forbice sociale fra i ceti si allarga, la disoccupazione, specie giovanile, è una piaga di cui ci si deve far carico.
Da più di un punto di vista è stato un discorso di forte continuità con l'azione del suo predecessore, Giorgio Napolitano, e nel solco tracciato ancora prima da Carlo Azeglio Ciampi. Vanno in questa direzione oltre che i richiami forti a «mantenere unito il Paese», nonostante le difficoltà del momento, la decisa presa di posizione a favore delle riforme istituzionali che sono da fare (ovviamente il Presidente si astiene dall'indicare come), l'impegno a «ridare al Paese un orizzonte di speranza», la rinnovata affermazione di una fede europeista, perché la Ue «rappresenta oggi, ancora una volta, una frontiera di speranza». Sono temi che Napolitano aveva lasciato in qualche modo sul banco nel suo discorso del 16 dicembre 2014 ,quando aveva esplicitamente detto sia «non si attenti in qualsiasi modo alla continuità di questo nuovo corso» sia che «tutto richiede continuità istituzionale».
Non sono mancate però sottolineature che vengono dalla storia personale del dodicesimo inquilino del Colle. Quando infatti è tornato sul tema del «ricostruire quei legami che tengono insieme la società», ha voluto richiamare come la Costituzione «sottolinea il ruolo delle formazioni sociali, corollario di una piena partecipazione alla vita pubblica». Ed ha aggiunto: «La crisi di rappresentanza ha reso deboli o inefficaci gli strumenti tradizionali della partecipazione, mentre dalla società emergono con forza nuove modalità di espressione che hanno già prodotto risultati avvertibili nella politica e nei suoi soggetti».
Chi ha un orecchio un poco avvertito, coglie qui l'eco di una impostazione che risale alla presenza dei “professorini” dc in Costituente, e poi alla lezione di Mortati e di Leopoldo Elia. Ci si potrebbe chiedere se sia un invito a riprendere anche le pratiche “consociative” che sono state soggette a tante critiche. Nel senso volgare del termine, cioè come rinvio ad un consociativismo fondato su poteri di veto in nome della difesa dei poteri corporativi dei singoli segmenti sociali, certamente no. Come invito a non buttare via il bambino con l'acqua sporca e dunque a dedicare maggiore attenzione ad un dialogo con le articolazioni sociali, probabilmente sì.
Mattarella ha chiaramente espresso in questo suo discorso come una doverosa attenzione al travaglio di una società toccata da una crisi profonda e per tanti versi angosciante non debba tradursi in una polverizzazione della rappresentanza. Lo ha spiegato quando, dopo aver reso omaggio al cambiamento sociale testimoniato da un parlamento ricco dei volti nuovi di donne e di giovani, ha esortato i suoi membri a ricordarsi che sono lì non per lavorare per una parte, ma per «rappresentare l'intero popolo italiano».
Un altro elemento significativo è stata la sua lunga esposizione scandita dal «garantire la costituzione significa». Anche questo era, da un certo punto di vista, un messaggio in bottiglia che, ad essere franchi, non sappiamo quanto l'uditorio abbia colto. Infatti in questo modo Mattarella sottolinea implicitamente la presenza di due parti della costituzione: una, che si usa definire “programmatica” e che pone in capo allo Stato, ma anche alla comunità nazionale tutta, doveri verso i deboli, verso la coesione sociale, verso la costruzione di una economia evoluta, ma solidale, verso l'incremento dell'istruzione e della cultura, ecc.; una seconda che è quella che organizza, per usare una formula sintetica, i poteri dello stato e i loro rapporti.
Per la prima il Presidente non ribadisce una intangibilità a vuoto, ma esorta a metterla in atto, a renderla viva anche al di là del dettato letterale (si veda per esempio l'appello a favore dei disabili). Per la seconda, come si è già detto, afferma, da costituzionalista, la legittimità di un suo ripensamento, perché «la democrazia non è una conquista definitiva ma va inverata continuamente, individuando le formule più adeguate al mutamento
dei tempi».
È su questo duplice orizzonte che si collocherà il ruolo del Presidente in rapporto necessario sia col Parlamento sia col Governo. Egli è consapevole del suo ruolo di “arbitro” (ma anche, e non si sottovaluti questo accostamento, di “garante della costituzione”). Come arbitro sa di dover essere, e assicura che sarà “imparziale”. Ma aggiunge, verrebbe da dire con la lezione tratta dal calcio di cui è appassionato, una frase rivelatrice: «I giocatori lo aiutino con la loro correttezza». Ha visto quanto sui campi da gioco la tentazione a non esserlo sia forte e non ignora che anche in politica su quel versante non mancano i problemi.
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