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Petrolio e gas, partono le grandi acquisizioni

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LA FUSIONE TRA SHELL E BRITISH GAS

Petrolio e gas, partono le grandi acquisizioni

Poco più di un mese fa, in un articolo per questo giornale (il 26 febbraio 2015), avevo preannunciato l’avvio di un processo intenso di fusioni e acquisizioni nell’industria petrolifera.
L’acquisizione della britannica British Gas da parte dell'anglo-olandese Shell - un’operazione da 70 miliardi di dollari - si inserisce nel contesto di quella previsione e ne è la prima rilevante manifestazione.
Non occorreva avere una sfera di cristallo per capire che le grandi società del petrolio avrebbero reagito alla crisi dei prezzi degli idrocarburi inaugurando una nuova fase di consolidamento.
Nella storia dell’industria petrolifera non c’è stato periodo prolungato di prezzi bassi che non abbia comportato processi massicci di fusioni e acquisizioni. Questa volta, tuttavia, c’è un elemento importante che sostiene un simile processo: la necessità per molte società di “coprire” gli errori del passato e i tanti problemi insoluti del presente e del futuro.
Tra gli errori del passato c’è quello di aver investito troppo in progetti discutibili sull’onda di una fede incrollabile nei prezzi alti del greggio e del gas. Quegli investimenti hanno bruciato cassa senza produrre risultati significativi, soprattutto in termini di disponibilità di nuove riserve di petrolio. A peggiorare le cose, le riserve entrate in portafoglio negli ultimi anni sono molto costose, in molti casi producibili con profitto solo con prezzi del greggio superiori a 80-90 dollari a barile.

Mentre le riserve di greggio delle major sono calate, sono aumentate quelle di gas naturale: ma in molti casi, si tratta di riserve lontane da mercati di consumo e in mezzo al nulla, il cui sviluppo comporta costi oggi (e per il prevedibile futuro) molto più alti dei prezzi a cui si vende il gas sui diversi mercati internazionali.
I modesti risultati della grande industria petrolifera nascondono una crisi d’identità ancora peggiore. Anzitutto, un’assenza di visione strategica sorprendente, che ha spinto molte società a seguire mode tipiche di altri settori come l’outsourcing, il taglio dei costi spinto all’estremo, la perdita di competenze distintive in termini di tecnologia e risorse umane, la rinuncia all’innovazione. Per effetto di questo appiattimento, nel breve volgere di poco più di un decennio le major petrolifere sono diventate società troppo simili a tutte le altre, capaci di fare le stesse cose di una società cinese, russa o indonesiana. Tutte, infatti, una volta vinto un contratto, affidano gran parte del lavoro a terzi, cioè a società di servizi: sono queste ultime che oggi svolgono circa il 75 per cento (in termini di valore) del lavoro di esplorazione e produzione di petrolio e gas realizzato a livello mondiale. A peggiorare le cose, le major petrolifere hanno ridotto gli investimenti in ricerca e sviluppo tecnologico, vedendosi raggiungere o superare sul piano dell’innovazione e dell’abilità da nuovi soggetti, tra cui le società di servizi petroliferi e perfino compagnie petrolifere nazionali.

Non appena caduti i prezzi del petrolio, la marea si è ritirata e si è cominciato a vedere che molte società facevano il bagno nude – per parafrasare Warren Buffett. La prima reazione agli errori degli ultimi anni è stata ancora una volta discutibile: varare piani draconiani di taglio dei costi – dove per costo si intende soprattutto il costo del lavoro o dell’innovazione. Un’altra trovata dalle gambe corte, poiché l’industria petrolifera non ha un’alta intensità di lavoro, mentre ha un’altissima intensità di capitale. In altri termini, il costo del lavoro rappresenta una frazione ridotta di quanto ogni compagnia investe ogni anno in nuovi progetti. Per quest’ultimo motivo, la selezione e l’esecuzione di un progetto sono i fattori che determinano il successo o l’insuccesso di una major. Ma per selezionare e eseguire bene un progetto occorrono competenze e risorse umane che – invece – l’industria continua a tagliare: così si spiegano, in parte, gli errori nell’individuazione degli investimenti su cui puntare e l’abnorme lievitazione del costo della maggior parte dei progetti. Allo stesso tempo, pensare di cambiare il futuro disponendo di tecnologie e capacità di innovazione in costante calo significa votarsi a una più o meno spinta eutanasia.

Il processo di consolidamento avviato dall’operazione Shell-BG è un tentativo di trovare una scorciatoia a questi problemi, che però sono in gran parte culturali. Se l’industria non cambia la sua identità, neanche le acquisizioni potranno risolvere i suoi deficit. D’altra parte, già tra il 1996 e il 2001 si verificò un vasto processo di consolidamento tra società del petrolio i cui risultati furono vanificati in breve tempo dall’insistenza autolesionista dell’industria sul taglio dei costi e l’efficienza. Inoltre, oggi la partita delle acquisizioni è aperta anche a nuovi attori – fondi sovrani, società asiatiche, etc. – che un tempo non erano in gioco e che potrebbero strappare alle grandi major tradizionali buone opportunità di investimento o renderle molto più costose.
Purtroppo, in questo quadro, a rischiare molto non sono solo le società più piccole, ma anche interi pezzi dell’industria petrolifera (e del gas) e dei servizi all’industria petrolifera italiani.

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