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Taglio delle tasse, uno shock salutare ma serve realismo

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analisi

Taglio delle tasse, uno shock salutare ma serve realismo

di Salvatore Padula

Questo Paese ha quanto mai bisogno di uno shock fiscale. È la dura realtà dei numeri a ricordarcelo ogni giorno.
Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha ragione da vendere quando parla della necessità di una «rivoluzione copernicana» delle tasse; e anche quando si spinge oltre, immaginando un cronoprogramma da rispettare «senza aumentare il debito».
Uno shock fiscale è assolutamente salutare in un paese come il nostro che nei prossimi anni – senza ulteriori interventi e per di più con l’incognita delle numerose clausole di salvaguardia che in genere prevedono aumenti di tasse e imposte – vedrà la pressione fiscale in crescita (ancorché, come il governo ha più volte precisato, «al netto della classificazione contabile del bonus Irpef da 80 euro»).
È giusto avviare un percorso di revisione della tassazione immobiliare, cresciuta per la parte Imu-Tasi del 170% tra il 2011 e il 2015, con l’aggravante di portarsi dietro alcuni mostri di iniquità quali la tassa sugli imbullonati (che ora Renzi promette di superare).
Ed è anche giusto, guardando al più avanti nel tempo, immaginare che la riduzione dell’Irap – che dispiegherà per intero i propri effetti solo nel 2016 – e in prospettiva l’annunciata riduzione dell’Ires delle imprese e dell’Irpef delle persone fisiche possano contribuire a migliorare quella percezione tanto diffusa di un fisco insaziabile.

Tutto assolutamente condivisibile. A patto che non ci si faccia intrappolare nelle sabbie mobili degli annunci e delle promesse da campagna elettorale. A patto che si dica con serietà che nessuno shock fiscale, per quanto necessario, deve trasformarsi in un salto nel vuoto. Che le coperture devono essere chiare e trasparenti. Non ci sono molti modi per impegnarsi in un taglio delle tasse delle dimensioni promesse da Renzi. Si può ridurre energicamente la spesa pubblica, il che vuol dire azzerare sprechi e forse ridefinire il perimetro dello Stato. Oppure si deve agire sull’area del sommerso e dell’evasione. Certo, si possono immaginare percorsi di razionalizzazione fiscale - vedi le tax expenditures - ma in questo caso non si produrrebbe un vero taglio fiscale quanto una redistribuzione del carico.
Peraltro, proprio la storia recente delle tasse offre alcuni spunti di riflessione sugli effetti delle riforme (o presunte tali). Prendiamo la fiscalità sulla casa. Con l’Imu il prelievo patrimoniale è passato dai 9 miliardi del 2011 ai 25 del 2012. Poi c’è stato l’intervallo del 2013. La parola d’ordine è diventata ancora una volta “Via la tassa sulla prima casa” (erano i primi mesi del governo Letta e della “strana” maggioranza ). E così si fece: circa 3,5 miliardi in meno di tasse – tanto vale il prelievo sull’abitazione principale – con effetti però devastanti sia in termini di complicazioni sia di guasti alla finanza locale. Molti ricorderanno i giorni del caos della mini-Imu, come è un fatto che il problema dell’Imu agricola, che ora Renzi promette di voler superare, si è aperto proprio per far fronte al minor gettito Imu sulla prima casa.

L’imposizione immobiliare in Italia ha bisogno di un energico riordino (atteso con la local tax). Ma – per dirla con franchezza – forse è riduttivo limitare la riflessione alla prima casa. Il problema delle tasse immobiliari riguarda le seconde case, le case sfitte, riguarda i negozi, gli uffici. Riguarda gli immobili delle imprese, troppo spesso considerati dal fisco al pari di beni di investimento e non beni strumentali all’attività, quali sono. Quindi, bene ragionare sulla prima casa, ma non scordiamo il resto.
C’è poi il versante dell’imposizione diretta. Limitandoci alle imprese, c’è un numero che più delle statistiche sulla pressione fiscale misura il disagio degli imprenditori. Si tratta della quota di prelievo per una Pmi ogni 100 euro di utili. Il confronto è impietoso: in base a questo indice (il total tax rate calcolato dalla Banca Mondiale) l’impresa italiana subisce un prelievo del 65,4 per cento. Peggio in Europa fa solo la Francia con il 66,6%, ma la Germania sta al 48,9 e la Gran Bretagna poco sopra al 33 per cento.

Qualcuno potrà dire: non si parte da zero. E, in effetti, è vero. Con la legge di stabilità 2015 è arrivata l’integrale deducibilità del costo del lavoro dall’imponibile Irap ma anche il ripristino dell’aliquota al 3,9%, abbassata in precedenza. Così, i benefici sul costo del lavoro si faranno sentire integralmente solo il prossimo anno. Ma è evidente che tra Ires e Irap le imprese continuano a subire un prelievo molto elevato, che ne frena la competitività (insieme ad altri handicap tutti italiani, dalla burocrazia alla lentezza della giustizia civile). Così, va accolta con ottimismo, ma anche con il più volte citato realismo, ogni ipotesi di riduzione. Renzi ha parlato di nuovi tagli dal 2017. Aspettiamo fiduciosi. Per ora, dobbiamo segnalare due fatti: in primo luogo, non ha trovato attuazione nella delega fiscale il nuovo sistema di tassazione degli imprenditori individuali, perché l’introduzione dell’Iri - l’imposta sul reddito dell’imprenditore - non aveva la necessaria copertura di 800-900 milioni; in secondo luogo, si sta approvando in questi giorni una riforma delle sanzioni fiscali amministrative e penali che resterà in vigore solo due anni, fino al 2017, in quanto non si sono trovate le risorse per coprire il minor gettito derivante dall’applicazione di sanzioni più leggere. Due segnali non proprio incoraggianti.

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