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Al Sud manca il capitale sociale

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QUESTIONE MERIDIONALE

Al Sud manca il capitale sociale

Otto anni fa, prima dell’esplosione della crisi, la Banca d’Italia aveva già lanciato un forte allarme sulla situazione del Mezzogiorno, in quanto era andata sempre più deteriorandosi. Fin da allora appariva evidente che il Sud, a parte certe zone a “macchia di leopardo” caratterizzate da sprazzi di sviluppo e dinamicità (per la presenza di alcuni grandi complessi industriali e alla comparsa di varie piccole-medie imprese) continuava in complesso ad arrancare fra crescenti affanni economici e disagi sociali.

Si dubitava perciò che potesse farcela, a vent’anni dalla fine dell’intervento straordinario dello Stato, a vincere la scommessa di dar corso a un processo di crescita auto propulsivo e pervasivo, in sintonia con le aspettative sorte all’indomani dell’abolizione dell’Agensud. Benché la contrazione dei trasferimenti pubblici avesse determinato immediatamente un calo vistoso dell’occupazione, si pensava che, grazie anche all’accordo stipulato nel 1995 con la Commissione europea per la definizione delle aree beneficiarie dei fondi comunitari e ammesse a godere della legislazione nazionale di sostegno per il riequilibrio regionale, avrebbero preso a funzionare nuovi motori per l’economia meridionale.

In effetti, non erano mancati alcuni promettenti segnali di ripresa in seguito alla nascita di nuove imprese locali e ai risultati positivi dei settori più attivi nell’export. Inoltre molte speranze, per un rilancio dell’occupazione, aveva destato il varo in via sperimentale di particolari “contratti d’area” e “patti territoriali”, che prevedevano accordi tra associazioni imprenditoriali del Nord e del Sud per una serie di investimenti nel Mezzogiorno, nonché e un’ampia flessibilità in materia salariale concordata con le organizzazioni sindacali.

D’altra parte, si era convinti che l’epilogo dell’interventismo pubblico avrebbe sgomberato il campo da una congerie di distorsioni clientelari e da una gramigna di tangenti e voti di scambio (che avevano sovente contrassegnato il corso delle politiche governative a favore del Meridione) e responsabilizzato le amministrazioni locali tramite adeguate forme di decentramento e autonomia funzionale. In tal modo esse avrebbero contribuito a valorizzare le risorse umane e le potenzialità economiche del Sud, affrancandolo dal circolo vizioso tanto dell’assistenzialismo quanto del vittimismo. Inoltre l’adozione di più efficaci misure a sostegno della magistratura e delle forze dell’ordine per la repressione del fenomeno mafioso, aveva ridato fiducia alla gente, stanca di essere vittima e ostaggio delle cosche.

Senonché erano poi andate crescendo le disillusioni e le recriminazioni, dopo che s’era dovuto man mano constatare sia la scarsa aderenza di numerosi enti locali alle procedure e ai requisiti necessari per usufruire dei fondi comunitari europei (parte dei quali rimanevano perciò inutilizzati, a differenza di quanto avveniva in Spagna e in Portogallo); sia le difficoltà di “fare impresa” al Sud per la persistente carenza di adeguate infrastrutture ma anche per la concorrenza sleale di parte di aziende che s’avvalevano largamente del “lavoro nero” e dell’evasione fiscale; sia, ancora, le tenaci resistenze al cambiamento diffuse nella cultura sociale.

Sta di fatto che nel 2006, secondo la Banca d’Italia, l’indice di produttività degli occupati nel Sud era più basso di 18 punti alla media nazionale e che il tasso d’occupazione era inferiore di 19 punti, mentre il Pil pro capite non raggiungeva il 60 per cento di quello del Centro-Nord. La reviviscenza di questi forti divari andava attribuita, secondo il rapporto presentato nel maggio 2007 dal governatore Mario Draghi, alla «debolezza dell’amministrazione pubblica, all’insufficiente abitudine alla cooperazione e alla fiducia, a un costume diffuso di noncuranza delle norme». Egli auspicava perciò un «irrobustimento del capitale sociale»; una programmazione dei fondi Ue concentrandoli sulle «iniziative con obiettivi precisi e accertabili dai cittadini», e «rilevazioni obiettive, sistematiche, frequenti, su cui misurare i progressi delle singole amministrazioni e stabilire un corretto sistema di incentivi per indirizzare le risorse pubbliche».

Che queste raccomandazioni non abbiano poi riscosso tutta la dovuta attenzione, e che le conseguenze della recessione sopraggiunta due anni dopo (oltre alle note questioni critiche relative all’Ilva di Taranto, alla raffineria Eni di Gela, a Termini Imerese e al Sulcis) abbiano peggiorato ulteriormente la situazione del Mezzogiorno, lo dimostra oggi l’ultimo impietoso quanto drammatico rapporto della Svimez sul rischio di un permanente «sottosviluppo strutturale» del Sud. C’è pertanto da augurarsi, naturalmente, che possa prendere il via il piano annunciato ora dal governo per un complesso di investimenti di 70-80 miliardi nel giro di quindici anni. Ma occorre nel contempo che la classe politica e l’opinione pubblica siano pienamente consapevoli che dall’esito di quest’ultima partita, per invertire la rotta del Sud, dipende anche, in pratica, il futuro del resto del Paese.

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