L’intervento contro la povertà che il governo Renzi sta studiando per la legge di Stabilità sarà la solita misura, temporanea e marginale, utile solo a dichiarare nei talk show che «si fa qualcosa per chi sta peggio» o, invece, segnerà l’avvio della riforma attesa da vent’anni?
La prima opzione ripercorrerebbe il cammino già seguito da numerosi governi dalla metà degli anni 90. Simili misure servono per trasmettere all’opinione pubblica l’impressione che si stia agendo contro l’indigenza, offuscando così la vera scelta politica, cioè quella di non occuparsene realmente. Richiedono un ridotto investimento progettuale e finanziario e, coerentemente con la loro natura residuale, raggiungono di solito una quota esigua di poveri. L’eventualità di una loro riproposizione preoccupa molto tutti coloro che sono impegnati nella lotta all’esclusione sociale: consapevoli che non produrrebbe miglioramenti duraturi, costoro vivrebbero – una volta di più - la frustrazione di chi ben conosce la successione di ininfluenti risposte spot introdotte in passato.
I possibili interventi strutturali, invece, si differenziano innanzitutto per l’utenza raggiunta. La proposta dell’Inps si rivolge solo ad alcuni poveri, tagliando fuori gli altri. Ripresenta così il tradizionale limite della cultura politica italiana: ritenere che per venire aiutati non basti essere in difficoltà, ma si debba anche appartenere a una specifica categoria (siano i 55-65enni, chi ha figli o altri). Di fatto, si determina così una graduatoria tra gli indigenti: l’esperienza dimostra che la posizione occupata è fortemente influenzata non tanto dai bisogni quanto dall’interesse suscitato nell’opinione pubblica e dalla capacità di pressione dei soggetti in grado di rappresentare le diverse specifiche istanze. L’autentico cambiamento, al contrario, consiste nel riconoscere il diritto di cittadinanza a tutti i poveri in quanto tali, anziani o giovani, del Sud o del Nord, e così via. È ciò che fa il Reddito d’inclusione sociale (Reis), destinato a chiunque viva la povertà assoluta, cioè la vera e propria indigenza, definita dall’Istat come l’impossibilità di raggiungere uno «standard di vita minimamente accettabile», legato a un’alimentazione adeguata, a una situazione abitativa decente e ad altre spese basilari.
Il Reddito di cittadinanza (Rdc) amplia ulteriormente l’utenza, poiché si rivolge non solo al 6,8% di persone in povertà assoluta, ma anche a chi si sta impoverendo, arrivando così al 14,9% del totale. Combattere l’impoverimento dev’essere una priorità del welfare, ma è un obiettivo ben diverso dal sostenere chi vive la povertà. Occorre, pertanto, perseguirlo con strumenti differenti quali interventi per l’occupazione, la famiglia, il fisco e altro.
Gli esperti ritengono che spesso per gli utenti sia fondamentale, oltre a ricevere un contributo economico, compiere percorsi d’inserimento sociale e/o lavorativo, che consentano loro – ove possibile – di uscire dalla povertà e, comunque, di massimizzare la propria autonomia. È necessario, pertanto, potenziare fortemente i soggetti deputati a costruire tali percorsi, cioè i servizi del welfare locale, che in Italia sono ridotti. Reis e Rdc condividono tale finalità, ma la declinano diversamente: il primo affida la regia dei servizi coinvolti ai Comuni, mentre il secondo ai Centri per l’impiego. Quest’ultima ipotesi riflette la difficoltà, ancora diffusa nel nostro Paese, a considerare gli interventi contro la povertà non come politiche del lavoro, bensì per ciò che sono effettivamente: politiche sociali chiamate ad affrontare il variegato insieme di elementi potenzialmente legati all’indigenza (responsabilità familiari verso bambini o anziani, problemi abitativi, mancanza di un impiego, specifici fattori di disagio e altro). Solo i Comuni dispongono degli strumenti per valutare le eterogenee condizioni dei poveri, coinvolgere i servizi necessari – siano essi Terzo settore, Centri per l’impiego o altri - e coordinarne l’azione.
Il Reis assegna una rilevanza strategica al sostegno del percorso attuativo, da sempre trascurato in Italia con la conseguenza di varare sovente riforme impeccabili sulla carta, ma fallimentari alla prova dei fatti. Il Reis prevede, al contrario, un articolato pacchetto di strumenti predisposti da Stato e Regioni per accompagnare e sostenere lo sforzo richiesto a livello locale nel tradurre la misura in pratica. Alcuni strumenti di tale natura si trovano anche nel Rdc, benché il tema non assuma, in tale progetto, l’assoluta centralità attribuitagli dal Reis.
L’attenzione del Reis alla sostenibilità attuativa si traduce pure nella previsione, unica tra le proposte considerate, di un’introduzione graduale attraverso un Piano nazionale di quattro annualità; all’avviamento, il legislatore assume precisi impegni riguardanti il suo punto d’arrivo e le tappe intermedie. Procedere per gradi, infatti, significa assicurare a tutti i soggetti coinvolti adeguati tempi di apprendimento e adattamento organizzativo, imprescindibili al fine di raggiungere il significativo sviluppo del welfare locale prospettato. D’altra parte, per costruire un cambiamento destinato a rimanere, chi opera nei servizi territoriali ha bisogno di un quadro di riferimento sicuro sulle politiche nazionali del prossimo futuro, condizione irrinunciabile al fine di compiere a livello locale i necessari investimenti in progettualità e in risorse umane e finanziarie.
Nel 2016 per il Rdc servirebbero 16,9 miliardi di euro, mentre per avviare il Reis 1,8. Chiunque segua la finanza pubblica sa che, quando un tema diventa una priorità politica, 1,8 miliardi si trovano. Dipende se si vuole intraprendere un percorso di riforma insieme sostenibile – tanto dalle casse dello Stato quanto dal nostro sistema di welfare – e capace di cambiare il volto delle politiche sociali in Italia.
Collaboratore del Sole 24 Ore e coordinatore scientifico dell’Alleanza contro la povertà in Italia