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I dubbi dell’Europa e la tagliola cinese

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I dubbi dell’Europa e la tagliola cinese

«Sarà la decisione più importante che l’Europa sarà chiamata a prendere quest’anno» dice un diplomatico europeo. «Questa oggi è la madre di tutte le questioni commerciali, quella che stabilirà se in futuro saremo costretti a vivere in un panorama di prezzi costantemente depressi» avverte una delle tante voci allarmate della siderurgia europea. Che è sul piede di guerra insieme all’intera industria manifatturiera Ue.

In ballo c’è il riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato a partire da dicembre. Secondo Pechino si tratterebbe di un atto dovuto, automatico, scolpito nel Trattato di adesione alla Wto firmato a Doha nel 2001. Per gli Stati Uniti la certezza cinese è una forzatura giuridica.

L’Europa, al solito, oscilla tra i dubbi interpretativi dei servizi legali, tutt’altro che univoci, e il confuso groviglio dei suoi diversi interessi nazionali: con i Paesi del Nord mercantile e liberista a tutti i costi, decisi sia a privilegiare i consumatori con prodotti sempre meno cari sia ad attirare (e fare) investimenti miliardari. A Sud i Paesi manifatturieri temono l’autodistruzione, sommersi da importazioni in dumping senza più freni. In mezzo c’è la Germania di Angela Merkel, tentata di aprire a Pechino senza remore ma preoccupata di non abbandonare la propria industria, disarmata, ai rischi della concorrenza sleale.

Non è un’esagerazione dire che, quando esprimerà il suo verdetto finale, l’Europa si giocherà molto di più del semplice rapporto con la Cina: deciderà sul futuro del suo modello di sviluppo nell’economia globale, della sua politica economica, industriale e commerciale, più o meno integrata. In ultima analisi della tenuta della sua coesione interna, già fin troppo fragilizzata nell’ultimo anno. Proprio perché la partita è veramente decisiva per il continente, ruolo e posizione che alla fine prenderà la Germania determineranno anche peso, respiro e capacità di visione della sua leadership europea.

«Ma è la Cina che aderisce alla Wto o è la Wto ad aderire alla Cina?» chiedeva un negoziatore Ue in quel di Doha in quell’autunno del 2001 che, si sarebbe presto scoperto, avrebbe sconvolto gli equilibri dell’economia globale. Ma allora nessuno immaginava che in 15 anni Pechino sarebbe diventata la seconda economia mondiale. La frase sembrava una semplice provocazione intellettuale. Scottati dall’esperienza, gli Stati Uniti sono cauti e contrari al disarmo commerciale unilaterale: proprio ed europeo.

Con lo status di economia di mercato, la Cina uscirebbe di fatto dall’incubo delle inchieste anti-dumping in quanto sarebbe essa stessa a fornire i dati sui prezzi dei propri prodotti, mentre oggi le cifre arrivano dai Paesi terzi. Diventerebbe dunque molto più complicato provarne le scorrettezze commerciali. Senza contare che massicce sovvenzioni, dirigismo e centralizzazione economica, prezzi amministrati e metodica manipolazione del cambio dello yuan rendono obiettivamente difficile definire quella cinese una normale economia di mercato.

Per questo gli Stati Uniti premono perché anche l’Europa lasci passare la scadenza di dicembre senza decidere, inducendo così la Cina a presentare ricorso alla Wto e quindi contestualmente a provare nei fatti di essere diventata a tutti gli effetti un’economia di mercato. In breve, ribaltando l’onere della prova.

Non è chiaro se alla fine sarà questo l’esito del braccio di ferro in corso. Di sicuro ieri, contrariamente a molti timori, la Commissione Juncker ha deciso di prendere tempo, per indagare meglio sull’impatto della decisione consultando anche l’industria, e presentare una proposta formale solo nella seconda metà dell’anno.

Inciampata una volta nella tagliola cinese, malgrado le sue divisioni questa volta l’Europa parrebbe intenzionata a rifletterci bene per evitare un nuovo passo falso. Il bilancio degli ultimi 15 anni ha visto quintuplicare il suo import dalla Cina, da 75 a 360 miliardi di euro con un aumento annuo dell’11,1 per cento. Triplicare il suo deficit commerciale. Entrare in vigore quasi 50 dazi antidumping ( a fine 2014), mentre altre 16 inchieste sono pendenti. Non solo.

Il boom cinese carburato dalle sovvenzioni ha creato un’enorme sovracapacità nel manifatturiero: dall’alluminio ai semiconduttori, dalle parti per auto alle biciclette, dai pannelli solari, a ceramica, vetro e carta. Nel solo settore dell’acciaio, che dal 2009 a oggi ha perso il 20% della forza lavoro nell’Ue, il surplus produttivo cinese ammonterebbe a 400 milioni di tonnellate, cioè a più del doppio dell’intera produzione europea (170 milioni di tonnellate).

Uno studio dell’Economic Policy Institute del settembre scorso calcola che, se a fine anno riconoscerà alla Cina lo status di economia di mercato, l’Europa dovrà prepararsi nel giro di 3-5 anni a veder aumentare l’import di manufatti di una cifra compresa tra i 72 e i 143 miliardi di euro, diminuire il Pil di 114-228 miliardi, cioè dell’1-2% , crescere la disoccupazione di 1,7-3,5 milioni di persone.

Terrorismo psicologico, soprattutto oggi che il dinamismo cinese ha perso smalto e vigore? Nel dubbio meglio procedere con i piedi di piombo. L’Europa è il colosso economico vecchio, che già cresce meno degli altri nel mondo globale, scosso da una crisi esistenziale dagli sbocchi ignoti: in queste condizioni, invece di rinvigorirla, un nuovo elettroshock cinese potrebbe atterrarla malamente, soprattutto se, cadute le difese anti-dumping, l’economia di mercato di Pechino restasse una finzione.

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