Sembrava scontato il bando della Russia da Rio 2016. Un colpo di spugna per cancellare il più incredibile caso di doping collettivo della storia dello sport. Ma gli equilibri politici, gli intrecci internazionali e il peso di Putin nello scacchiere del mondo sembrano arginare lo tsunami innescato dall’inchiesta che, con risvolti da spy story, ha scoperchiato la vicenda. Il Cio cerca di disinnescare la guerra, e non solo perché il 2016 è anno olimpico, periodo in cui – stando alla tradizione – le armi tacciono. Dopo le accuse di doping di Stato, contenute nel rapporto McLaren, il Comitato olimpico internazionale ha deciso di prendere tempo: «Per quanto riguarda la partecipazione di atleti russi a Rio 2016, il Cio dovrà valutare con attenzione il rapporto Wada e valutare se la possibilità di un divieto di partecipazione collettivo possa prevalere sui diritti di giustizia individuale», senza dimenticare che lo stesso Cio attende la decisione del Tribunale arbitrale dello sport che domani dovrà esprimersi sul ricorso degli atleti russi contro la decisione della Iaaf di escluderli collettivamente dai Giochi di Rio.
Con la scelta di ieri il Cio, che ha varato una Commissione disciplinare per esplorare «le opzioni legali», sottolinea la presunzione di innocenza e che la presenza di ogni atleta a Rio «dovrà perciò essere decisa dalla federazione internazionale di appartenenza in base alle proprie regole antidoping». Intanto, il Cremlino si difende: «Sbagliato punire chi è pulito», ma la sospensione del viceministro dello Sport Yuri Nagornykh è la prima conseguenza del rapporto della Wada.
Sulla scia dell’inchiesta doping, si inserisce la Fifa: il ministro dello sport russo, Vitali Mutko, considerato il “regista” del doping di Stato, è membro del Comitato esecutivo della Federcalcio mondiale e capo del comitato organizzatore di quel Mondiale 2018, sulla cui assegnazione gli Usa puntano il dito per i brogli con cui Mosca li avrebbe ottenuti.
La strada scelta ieri dal Cio è una tregua armata che viene dopo i riscontri della Wada: dal 2010, anno in cui a Vancouver la Russia si classificò solo 11esima, al 2015, il Paese di Putin avrebbe coperto centinaia di atleti di ogni disciplina risultati positivi ai controlli di Londra 2012, Sochi 2014, dei mondiali di atletica del 2013 e dei mondiali di nuoto del 2015 a Kazan. Coperture, sale e whisky, agenti dei servizi segreti all’opera, provette manomesse e tutti che stanno al gioco fino a quando l’ex direttore del laboratorio antidoping russo, Grigory Rodchenkov, fuggito negli Usa dopo la morte in circostanze poco chiare di due colleghi, comincia a raccontare.
“Le conclusioni del rapporto mostrano uno choccante e inedito attacco all’integrità dello sport e dei Giochi”
Thomas Bach, presidente del Cio
Putin accusa l’Occidente, e in particolare gli Usa, di una crociata anti-russa e minaccia uno scisma olimpico. In questo clima da guerra fredda, non si combatte con i missili, ma a suon di medaglie: bisogna vincerne tantissime, sempre più degli avversari americani e tutte le strade sono buone, compreso il doping di Stato come nella Ddr degli anni 80. L’altro ieri, davanti ai numeri, il presidente del Cio, Thomas Bach, era stato molto duro: «Le conclusioni del rapporto mostrano uno choccante e inedito attacco all’integrità dello sport e dei Giochi. Il Cio non esiterà a prendere le più dure sanzioni a disposizione contro ogni individuo o organismo implicato», ma per ora, tra chi chiede che Mosca sia bandita dai Giochi e chi, invece, invoca la “presunzione d’innocenza” per evitare di colpire atleti puliti, vince la volontà di non dare a Putin il destro per falsi vittimismi, perché, ricordando John Kennedy, «l’umanità deve mettere fine alla guerra, o la guerra metterà fine all’umanità».
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