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Chi controlla i pozzi di petrolio in Libia? I timori dell’Occidente

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Energia

Chi controlla i pozzi di petrolio in Libia? I timori dell’Occidente

(Reuters)
(Reuters)

Quando, a fine luglio, veniva annunciato un accordo per rilanciare l’export petrolifero della Libia, nessuno si era fatto molte illusioni. Ancora una volta le rivalità tra Tripoli e Tobruk rischiano di vanificare tutto.

In sostanza il nuovo Governo di unità nazionale, insediatosi a Tripoli a fine marzo e sostenuto dalla comunità internazionale, si era messo d’accordo con la Guardia delle strutture petrolifere libiche (Pfg), una milizia guidata dal leader Ibrahim Jidran, affinché fossero riaperti i terminali petroliferi di al-Sidra,Ras Lanuf e Zueitina. Chiusi da gennaio, quando i serbatoi furono incendiati dall’Isis, Ras Lanuf e Sidra hanno una capacità di 200mila e di 500mila barili al giorno (bg). L’annuncio veniva poi confermato domenica 31 luglio dalla compagnia petrolifera di Stato (la Noc). I cui vertici si erano spinti a nuovi obiettivi ambiziosi: portare l’estrazione entro fine anno dagli attuali 360mila barili al giorno, media produttiva degli ultimi 3 anni, a 900mila barili al giorno.

Pochi gli diedero peso, ma l’avvertimento lanciato da Hatim al-Arabi, portavoce dell’Esecutivo parallelo della Cirenaica, non era da prendere alla leggera: «Il petrolio libico si può comprare o vendere solo tramite la compagnia nazionale National Oil Company (Noc) con sede a Bengasi». Rincarando poi la dose. «Non è consentito ad alcuna petroliera di entrare e caricare greggio nei terminal di Ras Lanuf e Sidra in quanto sono in mano a forze fuori legge». Agli occhi di Hatim al-Arabi i fuorilegge altro non erano che i ribelli della Guardia delle strutture petrolifere libiche (Pfg). La minaccia includeva anche il terminale di Zueitina, il più vicino a Bengasi. Sono passati solo pochi giorni e cominciano ad arrivare cattive notizie. Dall’area intorno al terminale di Zueitina sono corse voci di tensioni tra i ribelli che controllano il terminale e l’armata del generale Khalifa Haftar, alleato dell’Egitto e avversario del Governo di Tripoli. Vale a dire quella che il Governo della Cirenaica, ormai ai ferri corti con quello di Tripoli, insiste nel chiamare Libyan army.

Tutto da rifare? Questa volta i Paesi occidentali alleati del Governo hanno fatto sentire la propria voce con un comunicato: «I Governi di Francia, Germania, Italia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti esprimono la propria preoccupazione per le notizie di tensioni crescenti vicino al terminal petrolifero di Zueitina, sulla costa centrale libica. Esprimono il proprio sostegno agli sforzi del Governo di accordo nazionale a contrastare senza l’uso della forza i tentativi di interrompere le esportazioni libiche di energia, e sottolineano che il controllo di tutte le infrastrutture dovrebbe essere trasferito incondizionatamente e senza precondizioni o ritardi alle legittime autorità nazionali». È una presa di posizione inequivocabile e forte. Che ribadisce l’incondizionato sostegno al governo di Tripoli, a cui riconosce in via esclusiva il diritto di gestire l’industria petrolifera.

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Il problema è che la Libia continua ad essere spaccata in due. Dall’agosto del 2014, quando una coalizione di milizie islamiche conquistò Tripoli insediando un proprio governo vicino ai Fratelli musulmani, la comunità internazionale si schierò con il governo “in esilio” in Cirenaica, definendolo il solo legittimo. Dall’inizio di quest’anno il sostegno è ricaduto sul Governo di Unità. Davanti all’ostinazione del Parlamento di Tobruk a non riconoscere il neo Governo, l’Occidente lo ha in pratica sconfessato. Eppure le autorità della Cirenaica si stanno comportando come se nulla fosse accaduto. Dal 2014 hanno fatto di tutto, e continuano a farlo per amministrare le risorse energetiche della Cirenaica, arrivando perfino a creare un autoproclamato ramo della Noc a Bengasi. E cercando di esportare greggio, sfidando l’autorità di Tripoli.

È chiaro che andare avanti così non si può. Per un paese che di petrolio vive - ancora oggi il 96% delle entrate governative e il 95% dell’export arriva proprio dalle vendite di greggio - l’emorragia energetica, unita alla caduta dei prezzi internazionali del barile, ha messo in ginocchio l’economia. Prima della rivolta contro Gheddafi la Libia, che vanta le più grandi riserve dell’Africa, produceva 1,6 milioni di barili al giorno. Il settore deve essere riunificato. Ne è consapevole anche Abdullah al-Thani, il premier del Governo parallelo della Cirenaica. Ma le condizioni imposte a Tripoli suonano inaccettabili; spostare i quartieri generali della Noc a Bengasi e allocare il 40% delle entrate petrolifere alla Cirenaica.

Troppo volte l’Isis è servito ai diversi belligeranti come un capro espiatorio. Incluso il disastro petrolifero, che si trascina ormai da almeno tre anni. I recenti attacchi dell’Isis hanno avuto un impatto sicuramente minore delle rivalità tra le fazioni che rivendicano il controllo delle risorse energetiche. Questo è il vero problema.

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