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In un chip la nuova anima di Cassino: così nascono Giulia e Stelvio

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negli stabilimenti fca-cnh

In un chip la nuova anima di Cassino: così nascono Giulia e Stelvio

Stabilimento di Cassino, pochi giorni prima di Natale. Alle due del pomeriggio le linee si fermano. Un signore con la tuta dell’Alfa Romeo, basso e magro, sale su una piccola pedana, intorno a cui si radunano operai, tecnici e ingegneri. Nessuno show, zero concessioni al mondo contemporaneo in cui tutto è televisivo e ogni cosa è reality. Piuttosto, l’eco di antichi riti della civiltà industriale. Siamo pur sempre in fabbrica. Poche parole, pronunciate con un marcato accento siciliano, dirette ma prive del timbro militaresco che per un secolo ha risuonato nei vecchi stabilimenti della Fiat. «Soddisfazione... lavoro ben fatto ... grazie ... ancora molta strada». Sebastiano Garofalo, 67 anni di cui 37 trascorsi in Fiat, è l’ingegnere a cui Sergio Marchionne ha affidato nel 2008 la ricostruzione di Pomigliano d’Arco. Ora è il direttore di Cassino.

Qui, a Cassino, è una giornata particolare. Oggi cade il Job One: dalla linea produttiva esce la prima Stelvio. «Questo stabilimento – spiega il capo del personale Carmine D’Agresti - ospita 4.300 addetti (510 le donne, il 60% diplomati, il 4% laureati e il 36% con la terza media), che dovrebbero salire entro il 2018 di altri 1.800». L’impianto funziona ora su un turno (con una produzione di 400 auto al giorno). A regime andrà su due turni: la capacità produttiva è di 1.200 auto al giorno. Con la produzione della Giulia e della Stelvio, il cerchio tracciato diversi anni fa da Marchionne si chiude.

Fin dal 2004, Marchionne ha dovuto misurarsi con la non semplice equazione del mantenimento delle radici produttive in Italia e della ristrutturazione di un gruppo in condizioni, al suo arrivo, sull’orlo del fallimento. Dal 2009, l’ok dell’Amministrazione Obama all’acquisizione della Chrysler ha modificato in maniera strutturale il profilo del gruppo, rendendo necessaria la elaborazione di un nuovo compito strategico per l’Italia, che fosse compatibile con lo scenario della recessione europea e con la nuova fisiologia di una realtà a inevitabile trazione americana. Sotto l’aspetto industriale questa metamorfosi non indolore, che ha fatto il paio nel campo della rappresentanza con l’uscita nel 2011 della Fiat dalla Confindustria e nel campo delle relazioni sindacali con il conflitto con la Fiom-Cgil, ha riqualificato le fabbriche italiane in un disegno organico, così da trasformare il nostro Paese in una piattaforma produttiva in grado di fabbricare auto per il mercato interno – per esempio la Pomigliano d’Arco della Panda - e per il mercato nordamericano: a Melfi c’è la Renegade, la prima Jeep prodotta fuori dagli Stati Uniti e soprattutto esportata negli Stati Uniti, con una strategia finora di sorprendente successo che però dovrà passare al vaglio dei dazi ventilati dal neopresidente Donald Trump; Mirafiori ospita la Levante, il suv della Maserati. E, a Cassino, si trova appunto la doppia produzione: la Giulia e la Stelvio.

Un mosaico costruito tassello per tassello, sotto il coordinamento del responsabile delle attività europee di Fca Alfredo Altavilla, che sta gradualmente modificando il paesaggio industriale italiano. Basti pensare che, soltanto l’anno scorso, il nostro sistema produttivo ha superato il milione di unità fra autovetture, veicoli commerciali e veicoli industriali: per la precisione, 1.015.000 unità. Di questi, secondo il Centro Studi Promotor, 821.651 sono riferibili ai marchi di Fca: Fiat, Fiat Professional, Alfa Romeo, Lancia, Jeep, Maserati e Ferrari. Secondo l’Anfia, aggiungendo il perimetro Cnh al perimetro Fca, si sale a 898.647. Quest’anno, secondo le stime dell’Anfia, il sistema industriale italiano dovrebbe superare un milione e 100 mila unità. In questo caso, l’universo Fca-Cnh dovrebbe arrivare a un soffio da un milione di autoveicoli: le stime dell’Anfia fissano l’asticella a 967.700 unità. In ogni caso, al di là del totem quantitativo, è con la chiusura del cerchio del disegno strategico di Marchionne, avvenuto appunto con la Giulia e la Stelvio a Cassino, che si intacca il tabù di una Italia che non è un Paese per costruttori di automobili. Un tabù fissato nella percezione di molti dal combinato disposto della recessione internazionale, che ha colpito il tessuto produttivo italiano riducendone di un quinto la capacità manifatturiera, e della contrazione produttiva della Fiat fra il 2008 e il 2013, quando è stato toccato il punto di minimo di 658mila autoveicoli. Provate a chiedere a Tullio Meoli, un ragazzo di Benevento con laurea in ingegneria meccanica alla Federico II di Napoli e tesi al Centro Ricerche Fiat, se l’Italia non è un Paese per costruttori di automobili. Tullio, dopo il cursus honorum a Pomigliano d’Arco e a Melfi, è diventato capo della lastratura di Cassino.

FCA, lo stabilimento di Cassino

Nello stabilimento, sorto nel 1972 per produrre la Fiat 126, la lastratura ha un livello di automazione che pone Cassino fra i benchmark dell’automotive industry internazionale. Nella linea dedicata alla Giulietta, che qui è ancora in produzione, le saldature provocano scintille. Nella nuova linea, la Butterfly, non si vedono scintille. Si sentono soltanto colpi attutiti. Sedici braccia per sedici robot della Comau - l’azienda del gruppo specializzata in macchinari - si muovono con precisione. «Il telaio, la scocca e la fiancata – spiega Tullio – vengono uniti con 50 punti di saldatura. Tutto capita in meno di un minuto». La Butterfly funziona con quattro modelli, ciascuno dei quali ha innumerevoli varianti: le più semplici sono versione europea o americana, guida a destra o a sinistra, con o senza tettuccio. «La probabilità di un errore – dice Tullio Meoli – è inferiore all’1 per mille». L’altro cuore della fabbrica è il montaggio. Ma se la lastratura è uno dei più alti concentrati di automazione e di dialogo macchina-macchina – ossia la versione ortodossa, alla tedesca, del mantra dell’Industry 4.0 - il montaggio di Cassino appare invece uno dei luoghi in cui maggiormente l’interazione fra uomo e macchine si fa sottile e intelligente, nella versione americana - meno di chip e acciaio e più di chip e mente - con cui oggi si declina il nuovo concetto di fabbrica. Fabio Colozzi, un perito industriale di un piccolo centro nel Frusinate chiamato Esperia, è un team leader, il primus inter pares nella squadra – il “dominio” - formata da sei operai. Il team leader è la figura centrale nell’organizzazione delle fabbriche di Fca, il sistema del World class manufacturing che da Pomigliano d’Arco si è espanso agli altri stabilimenti italiani, fino a diventare il codice organizzativo con cui Marchionne sta rimettendo in quadro gli obsolescenti impianti americani. «Con lo smart-phone – spiega Colozzi – abbiamo un collegamento diretto fra il team leader e la linea produttiva e il team leader e il resto dell’organizzazione industriale. Quando la linea si ferma, il team leader viene avvisato. C’è una piena tracciabilità del problema. E, poi, tramite le mail e le chat, più il dialogo a distanza fra uomo e macchina, si può avviare la risoluzione del problema».

Rispetto alle fabbriche di mass production come la Pomigliano d’Arco della Panda, la specificità di Cassino è il tentativo di conciliare numeri elevati e una qualità elevata: la quintessenza del polo del lusso, formato da Alfa Romeo e da Maserati, che rappresenta la chiave di volta della effettiva realizzazione del progetto di Marchionne di un destino produttivo per l’Italia che concili le radici storiche e la sostenibilità degli economics, i principali basilari di buon funzionamento di ogni sistema economico e industriale. La progettazione e lo sviluppo prodotto dell’Alfa Romeo sono a Modena. A Cassino, in questa prima fase, è dislocata una équipe di ingegneri e di tecnici provenienti dall’Emilia Romagna. «La realizzazione e lo sviluppo dei dettagli o è interna o è affidata a fornitori esterni – dice Fabio Di Muro, ingegnere napoletano che coordina la progettazione e lo sviluppo delle Alfa Romeo – qui noi ci occupiamo della industrializzazione di queste funzioni così strategiche per Giulia e Stelvio».

FCA, lo stabilimento di Cassino

Un altro problema, essenziale per capire se l’Alfa Romeo sarà o no la chiave di volta per l’effettiva chiusura del cerchio del progetto italiano di Sergio Marchionne, è rappresentato dal tema della qualità, il vero tabù da rompere soprattutto negli Stati Uniti, dove il mito antico e appannato dell’Alfa Romeo rischia di essere condizionato dall’aura della Fiat nel senso di Fix it again Tony, Tony riparala ancora. Giovanna Di Mella, una ragazza nata a Morcone in provincia di Benevento e laureatasi in ingegneria gestionale alla Federico II di Napoli, è la responsabile della qualità. Una qualità identica a quella della Maserati di Grugliasco, anche se su volumi (di auto) e su ampiezza (di impianti) assai maggiori. «Il nostro vehicle control plant – sottolinea Di Mella – è declinato sia sul processo che sul prodotto e adopera il metodo del controllo totale e il metodo del controllo campionario. Alla fine, ogni Alfa Romeo riceve 17mila controlli». Ciascuna macchina compie un test in strada di due ore: 8 chilometri in pista e 32 chilometri in strada. La nuova Fiat Chrysler Automobiles, qui nello stabilimento della Giulia e della Stelvio, non vuol dire soltanto macchinari che dialogano con macchinari. Non significa soltanto la fabbricazione di un meccano complesso in cui le macchine lavorano per le macchine e le macchine lavorano per l’uomo. Non contempla soltanto lo sforzo di portare – nella percezione dei clienti – i marchi italiani a un livello di qualità e affidabilità pari alla loro storia e al loro fascino, insieme residuo e potenziale. Significa, anche e soprattutto, un gruppo di uomini e di donne che operano all’interno di un codice che, dall’Ottocento di Liverpool e di Manchester al Novecento di Detroit e di Torino, si è trasmesso fino a noi. Un pezzo dell’Italia industriale la cui scomparsa, in un Paese neomedievale in declino e in via di liquefazione, sarebbe stata una ferita non rimarginabile. «Ricordo, nel 2004, il primo incontro con Marchionne a Mirafiori – dice Garofalo, che allora dirigeva l’impianto simbolo della Fiat – lui era evidentemente colpito dal buio della fabbrica, dai materiali di risulta accatastati a fianco delle linee, dal rumore, dai pavimenti fatti con blocchetti di pino imbevuti di catrame, a cui d’estate si appiccicavano le suole».

FCA, lo stabilimento di Cassino

Da Torino a Cassino, passando per la pazzesca Pomigliano d’Arco dei 100 cani liberi nello stabilimento («Abbiamo dovuto metterli in un canile privato pagando la retta»). «Che cosa è cambiato, negli stabilimenti, con Marchionne? Prima di tutto Marchionne ha stanziato i soldi per rifarli. C’è una passione industriale in lui che in pochi conoscono e capiscono. Quando arriva in elicottero in stabilimento e chiede di parlare sulla linea con i ragazzi e le ragazze, si trasforma», racconta Garofalo. Oltre all’elemento particolare di Marchionne dell’amore in età matura per le fabbrica e della finanza di impresa (o, meglio, di fabbrica), esiste una questione generale di rimodulazione, coerente con la modernità, del vecchio codice Fiat. «Per cento anni – racconta Garofalo – questo gruppo e i suoi stabilimenti sono stati modellati sull’esercito sabaudo. La sala riunioni era chiamata sala rapporto. La gerarchia era tutto. Appariva improponibile parlare con qualcuno che non fosse il tuo diretto superiore». Un esercito sabaudo in cui era la norma usare il piemontese alle riunioni.

Oggi, a Cassino, non trovi uno di Dogliani o di Pinerolo nemmeno con il lanternino. L’accorciamento delle distanze ha creato una nuova architettura industriale. Non esiste più la palazzina degli impiegati. I colletti bianchi – per usare un vecchio lessico novecentesco – hanno uffici trasparenti collocati direttamente sulle linee produttive. Un fenomeno verificatosi in tutta l’industria fordista. Ma che, nella Fiat che nel 2004 rischiava di cadere a terra per non rialzarsi più, appare un bel paso doble. Nell’Italia che sta scricchiolando nella sua struttura produttiva – con una tendenza alla bipolarizzazione di un 20% delle imprese a cui si deve il 20% del valore aggiunto e l’80% dell’export e di un 80% che annaspa ormai senza più aria – la chiusura del cerchio di Sergio Marchionne, avvenuta qui a Cassino, non è cosa da poco.

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