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Dossier Come sopravvivere all’era Trump (e al declino dell’America)

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Dossier | N. 57 articoliMappamondo

Come sopravvivere all’era Trump (e al declino dell’America)

A seguito dell’insediamento di Donald Trump non è scoppiata l’Apocalisse, ma la retorica dell’ira divina certamente sì. Invece di adottare le parole di conforto o i toni distinti di Washington, Lincoln, Franklin D. Roosevelt, Kennedy o Reagan, il discorso inaugurale di Trump conteneva espressioni come «carneficina», «popolo di Dio» e «popolo virtuoso». Non somigliava tanto ad Andrew Jackson, il presidente populista degli anni 30 dell’800 a cui lo paragonano i suoi sostenitori, sembrava più il teologo puritano Jonathan Edwards che predicava il suo terrificante sermone “Peccatori nelle mani di un dio adirato”.

Per Trump, ovviamente, i “peccatori” non sono gli adulteri e gli oziosi che aveva in mente Edwards. Sono le aziende, gli avversari nazionali e i leader esteri che hanno respinto l’idea dell’“America al primo posto”. In poche parole sono l’establishment. Sotto gli occhi di quattro dei cinque predecessori in vita di Trump – Jimmy Carter, Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama – il neo-eletto definiva la loro eredità pervasa da assoluta avidità, autoreferenzialità e dalla corruzione di una radicata élite di Washington che aveva impoverito i cittadini americani e portato gli Usa sull’orlo della rovina.

Non si è trattata della mera continuazione della incendiaria retorica cavalcata da Trump durante la campagna elettorale. Ha iniziato subito a eviscerare il retaggio politico dei suoi predecessori. Il suo primo ordine esecutivo ha preso di mira l’Obamacare, minacciando di lasciare 18 milioni di americani senza assistenza sanitaria nel giro di un anno (e forse gettando scompiglio tra molti dei suoi stessi elettori). Nei giorni successivi ha firmato ordini esecutivi per far ritirare gli Usa dal Partenariato Trans-Pacifico (Tpp), rilanciare gli oleodotti bocciati da Obama, costruire un muro al confine con il Messico, e tagliare i fondi per la pianificazione familiare nei Paesi in via di sviluppo. Si è anche mosso per incentivare una forza speciale per espellere gli immigrati clandestini e ha prospettato la possibilità di ripristinare carceri segrete e la tortura dei sospettati per terrorismo. Ha persino proposto di invertire gli sforzi profusi dagli Usa per combattere l’Aids in Africa (un’iniziativa di George W. Bush).

E Trump non sta solo mantenendo le promesse. Sta anche perseverando nelle menzogne. Il termine orwelliano «fatti alternativi» è prontamente entrato nel lessico politico americano dopo il suo primo intenso giorno di mandato, quando Trump e i suoi più alti consiglieri, impersonando lo spirito dei Fratelli Marx, hanno accusato i giornalisti di aver deliberatamente sottostimato la folla presente alla cerimonia di insediamento. Il secondo giorno ha ripetuto ai leader del Congresso la sua menzogna post-elettorale, secondo cui milioni di voti illegali gli avrebbero negato la maggioranza popolare andando a sostegno della sua avversaria, Hillary Clinton – e ha richiesto un’indagine ufficiale per brogli che persino i suoi stessi avvocati hanno dichiarato inesistente.

Trump e i suoi sostenitori Repubblicani al Congresso stanno prendendo provvedimenti per vigilare su fatti ben più importanti, intensificando quella che lui chiama la sua «infinita guerra con i media», e cosa ben più minacciosa, vietando alle agenzie pubbliche di comunicare con il pubblico – o addirittura di raccogliere dati – sul cambiamento climatico, sulla discriminazione nel settore immobiliare e su molto altro ancora. Sembra determinato ad avvalersi del potere presidenziale per elevare l’“iperbole reale” – il credo decantato nella sua autobiografia del 1989 “Trump. L’arte di fare affari” – a etica del governo.

Ma trasformare la mendacia in politica nazionale è la formula per creare, e non per fermare, la «carneficina», e non solo in patria. Dopo tutto, in una crisi, quale leader mondiale sano di mente prenderebbe in parola Trump?

Secondo i commentatori di Project Syndicate ora la questione centrale del nostro tempo è anticipare e attenuare l’impatto destabilizzante dell’amministrazione Trump in tutto il mondo. Un risultato di importanza fondamentale, a loro avviso, è già certo: nell’ordine mondiale che Trump abbandonerà, l’America non sarà al primo posto.

America anti-globale
“America first”, osserva lo storico dell’Università di Princeton Harold James, denota un’idea con un antico – e inquietante – pedigree. «Lo spirito nazionalista del discorso inaugurale di Trump – osserva James – riecheggiava l’isolazionismo propugnato dall’aviatore razzista Charles Lindbergh, che, in veste di portavoce della America First Committee, fece delle pressioni per tenere gli Usa fuori dalla Seconda Guerra Mondiale». In modo analogo, il discorso di Trump «ha rinunciato allo storico ruolo del Paese nel creare e sostenere l’ordine postbellico». Se da un lato la sua «obiezione a un’America globale non è nuova – enfatizza giustamente James – certamente lo è il sentirla da un presidente americano».

L’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer e l’ex ministro degli Esteri spagnolo Ana Palacio sono allarmati dal possibile impatto globale di questa visione. «America first – secondo Fischer – segnala la rinuncia, e la possibile distruzione, dell’ordine mondiale guidato dagli Usa che i presidenti Democratici e Repubblicani, a partire da Franklin D. Roosevelt, hanno costruito e mantenuto, con più o meno successo, per oltre sette decenni».

Nell’opinione di Palacio, proclamando il «diritto di tutte le nazioni di mettere i propri interessi al primo posto», Trump intende «spostare indietro le lancette dell’orologio» sul «sistema basato sulle regole» postbellico. La sua visione, secondo Palacio, implica un ritorno alle «sfere di influenza del XIX secolo, nell’ordine mondiale dove i maggiori attori quali Usa, Russia, Cina e, sì, Germania, dominavano ciascuno la propria sfera all’interno di un sistema internazionale sempre più balcanizzato».

“America first segnala la rinuncia, e la possibile distruzione, dell’ordine mondiale guidato dagli Usa che i presidenti Democratici e Repubblicani, a partire da Franklin D. Roosevelt, hanno costruito e mantenuto, con più o meno successo, per oltre sette decenni”

Joschka Fischer, ex ministro degli Esteri tedesco  

Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations di New York, concorda. La visione mondiale di Trump, a suo avviso, è «alquanto incompatibile» con la cooperazione internazionale che serve oggi per affrontare i problemi più pressanti del mondo. Se la dottrina di Trump dell’America prima di tutto «continuerà a essere l’approccio statunitense – sostiene Haass – i progressi verso la costruzione del tipo di ordine che il mondo interconnesso di oggi richiede avverranno solo grazie all’impegno di altre grandi potenze; altrimenti, si dovrà attendere il successore di Trump». Questo esito, però, «sarebbe un ripiego e non farebbe che peggiorare la situazione degli Stati Uniti e del resto del mondo».

May Day per la relazione speciale
La possibilità di nuocere alle vitali relazioni americane si è palesata con il presidente messicano Enrique Peña Nieto che ha bruscamente cancellato una visita ufficiale sulla scia dell’ordine di Trump di avviare i lavori di costruzione del muro di confine. Al contrario, il premier britannico, Theresa May, il primo leader straniero a incontrare Trump alla Casa Bianca, sembra intenta a cementare i legami con la nuova amministrazione.

Come fa notare Dominique Moisi dell’Institut Montaigne di Parigi, al di là del condividere la «sfiducia nell’Europa», formano una coppia inaspettata. May «crede nel libero scambio e diffida della Russia, mentre Trump invoca il protezionismo e intende forgiare una partnership speciale» con il Cremlino. Eppure, nell’abbracciare una netta rottura dall’Unione europea dal referendum sulla Brexit dello scorso giugno, anche la May, «sembra essere spinta dalla politica domestica nel dare priorità alla sovranità nazionale rispetto all’economia». Di fatto, «il suo ragionamento sul popolo britannico non è diverso da ciò che dice il presidente russo Vladimir Putin ai propri cittadini: non si vive di solo pane, e rilanciare la sovranità e la grandezza nazionale vale il rischio economico».

Philippe Legrain, ex consulente economico del presidente della Commissione Ue, non è sorpreso della scelta della May di «una variante Brexit in cui il Regno Unito lascia sia il mercato unico dell’Ue che la sua unione doganale» e non solo perché «conosce poco l’economia, e tantomeno se ne cura». Come Moisi, Legrain crede che il suo «obiettivo finale sia sopravvivere come primo ministro». Dalla prospettiva della May, «controllare l’immigrazione – da tempo un’ossessione personale – le permetterà di ingraziarsi gli elettori del ’Leave’» mentre «mettere fine alla giurisdizione delle Corte di Giustizia europea in Gran Bretagna farà placare i nazionalisti del suo Partito conservatore». Una posizione di questo tipo collima con la visione mondiale nazionalista di Trump di aver incentivato ancor di più la May ad abbandonare l’Ue dopo più di quattro decenni.

“Il governo della May si sta dimostrando miope e sta giocando con il fuoco”

Guy Verhofstadt, ex primo ministro belga  

«La May dichiara che la Brexit consentirà al Regno Unito di concludere accordi commerciali migliori con i Paesi non appartenenti all’Ue – continua Legrain – e sta riponendo le sue speranze in un rapido accordo con l’America di Trump». Secondo Legrain, però, ci sarà un brusco risveglio: data la «disperata posizione negoziale della Gran Bretagna, anche un’amministrazione guidata da Hillary Clinton avrebbe imposto condizioni durissime a favore dell’industria americana». E osserva, «le case farmaceutiche statunitensi, ad esempio, vogliono che il servizio sanitario nazionale del Regno Unito, già a corto di liquidità, paghi di più per i farmaci». Più in generale, il semplice fatto che «come Cina e Germania, la Gran Bretagna esporta molto più verso l’America di quanto non importi dagli Usa» indebolirà la posizione della May. «Trump odia questo tipo di deficit commerciali ’ingiusti’ – fa notare Legrain – e ha promesso di eliminarli».

L’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt, si chiede «se il perseguimento da parte del Regno Unito di un accordo bilaterale con gli Usa sia solo di tipo economico, o se invece implichi un cambiamento più ampio della politica estera britannica». Di fatto, Verhofstadt, che sarà il capo negoziatore del Parlamento europeo per la Brexit una volta innescato formalmente dalla May il processo di divorzio (con ogni probabilità a marzo), suggerisce che «il team euroscettico di Trump stia influenzando» il suo approccio. Scommettendo «su un’alleanza con un presidente americano impopolare, inesperto e mendace per il futuro del suo Paese – scrive Verhofstadt – il governo della May si sta dimostrando miope e sta giocando con il fuoco». Dopo tutto, «la stragrande maggioranza del commercio britannico è con l’Ue, e non con gli Usa; e questo, come la posizione geografica e la sicurezza del Regno Unito, non cambierà».

Distruggere i cuscinetti di pace
Sull’ultimo punto – la difesa delle democrazie del mondo – Verhofstadt, come altri commentatori di Project Syndicate, ha le idee chiare. «Ora che la presidenza di Trump ha messo in dubbio le garanzie Usa per la sicurezza – spiega – il Regno Unito e l’Ue dovrebbero forgiare una partnership strategica per garantire la sicurezza europea» e «devono difendere e promuovere i valori democratici liberali a livello globale, e non abbracciare il nazionalismo narcisistico dei populisti». Iain Conn, Ceo di Centrica (casa madre di British Gas), crede in modo analogo che «sia più importante che mai che le democrazie avanzate si siedano attorno allo stesso tavolo», non solo per affrontare problemi globali correnti e futuri, come suggerisce Haass, ma anche per salvaguardare la propria sicurezza. «Dobbiamo proteggere i legami che uniscono – sostiene Conn – e riporre le nostre speranze future nelle alleanze e nelle tradizioni condivise».

La domanda è se le democrazie del mondo riusciranno a rafforzare i legami dovendo lottare per gestire crisi che molto probabilmente scoppieranno in assenza della leadership americana. Secondo Fischer, la Germania e il Giappone «saranno tra i maggiori perdenti se gli Usa con Trump abdicheranno al proprio ruolo globale». Dalla «totale sconfitta nel 1945 – osserva, entrambi i Paesi – hanno respinto tutte le forme di Machtstaat, ovvero dello ’stato di potere’», abbracciando il ruolo di «partecipanti attivi nel sistema internazionale guidato dagli Usa». Ma la loro abilità di reinventarsi e sostenersi nelle vesti di Paesi commerciali pacifici si è sempre basata sull’«ombrello di sicurezza degli Stati Uniti».

Qualora venisse rimosso quell’ombrello, continua Fischer, «la posizione geopolitica periferica del Giappone potrebbe, in teoria, consentirgli di ri-nazionalizzare le proprie capacità di difesa» anche se questo «potrebbe aumentare in modo significativo la probabilità di un confronto militare con l’Est asiatico», uno scenario particolarmente allarmante «dato che diversi Paesi della regione dispongono di armi nucleari». Rispetto al Giappone, però, «la Germania non può ri-nazionalizzare la propria politica di sicurezza neanche in teoria, perché un passo di questo genere andrebbe a compromettere il principio di difesa collettiva dell’Europa». E come ci ricorda Fischer, quel principio, integrando «le ex potenze nemiche affinché non vi siano pericoli per le une e per le altre», è stato fondamentale per il mantenimento della pace in Europa.

Non sono in gioco solo gli accordi post-bellici in materia di sicurezza. Trump ha messo in discussione due grandi risultati diplomatici conseguiti negli ultimi anni: l’accordo sul nucleare iraniano e l’accordo di Parigi sul clima. «Se gli Usa recederanno da uno di questi accordi, oppure se non vi adempiranno – spiega Javier Solana, ex segretario nazionale della Nato e Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri – assesteranno un duro colpo al sistema di governance globale che si basa sugli accordi multilaterali per risolvere problemi internazionali».

Per Haass, «la cooperazione sul cambiamento climatico – potrebbe essere – la manifestazione per eccellenza della globalizzazione, perché tutti i Paesi sono esposti ai suoi effetti, indipendentemente dal rispettivo contributo». Il patto salva-clima siglato a Parigi, «in cui i governi hanno concordato di limitare le emissioni e mobilitare le risorse per consentire anche ai paesi più poveri di adattarsi – osserva Haass – è stato un passo nella giusta direzione».

“Trump è il primo presidente americano in più di vent’anni che inizia il proprio mandato senza preoccuparsi che l’Iran oltrepassi la soglia di proliferazione nucleare di nascosto”

International Crisis Group 

Ma il disfacimento dell’accordo nucleare, noto ufficialmente come Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), rappresenta una minaccia immediata. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea), fa notare Solana, dichiara che le autorità iraniane le hanno permesso di «ispezionare ogni singola installazione che l’agenzia ha richiesto di visionare, incluse quelle cui era stato vietato l’ingresso prima dell’accordo, e ha garantito agli ispettori l’accesso ai sistemi elettronici e all’impianto per l’arricchimento». Solana cita un report dell’International Crisis Group: «Trump è il primo presidente americano in più di vent’anni che inizia il proprio mandato senza preoccuparsi che l’Iran oltrepassi la soglia di proliferazione nucleare di nascosto».

Questa conclusione, però, per quanto ben fondata e ampiamente condivisa, non necessariamente contraddice i “fatti alternativi” dell’amministrazione Trump. In questo caso, sostiene Solana, gli Usa, ritirandosi dal Jcpoa invece di «contribuire alla stabilità regionale», rischierebbero di provocare un «incubo ben peggiore» nel Medio Oriente. Secondo Solana, ci sono già «l’Arabia Saudita che intende mettere fine all’intervento militare nello Yemen», «l’Iran che inizia la campagna per le elezioni presidenziali» e «la Turchia che cerca una soluzione al conflitto siriano in linea con la propria politica sui curdi». Nel frattempo, «la Russia deve ritirare le proprie truppe dalla Siria, un intervento che ha dissanguato la sua economia». Tutti questi attori, così come l’Ue – che, precisa Solana, «deve ancora risolvere la crisi dei rifugiati» – sarebbero destabilizzati dagli effetti derivanti dall’incertezza nucleare e dalla possibilità di una corsa agli armamenti nel Medio Oriente.

Mosca sul Potomac?
Forse l’unica questione di politica estera in cui gli istinti di Trump potrebbero rivelarsi corretti, anche se per le ragioni sbagliate, è la relazione russo-americana che lui stesso è deciso a portare a un livello superiore. Robert Harvey, autore ed ex membro del Parlamento britannico, fa notare che «la Russia ha generalmente rispettato gli accordi sul controllo delle armi con gli Usa» e non ha «la potenza economica e industriale per sostenere nessuna azione di guerra a lungo termine». Ma è comunque scettico. «George W. Bush e l’ex premier britannico Tony Blair inizialmente vedevano Putin come un uomo con cui poter fare affari», osserva. «Ma ora che è al potere da 17 anni, Putin si è mostrato come un leader venale e violento» che «ha riversato la tattica della Guerra fredda sui dissidenti interni e su obiettivi esteri».

Eppure, Nina Khrushcheva della New School, sicuramente non un’apologeta di Putin, pensa che Trump possa comunque inciampare nella giusta politica. «L’obiettivo immediato di Putin è di svelare la doppia morale dell’Occidente» sostiene Khrushcheva, ad esempio «abbattendo le barriere occidentali al perseguimento degli interessi russi». E spera che l’ovvia affinità fra Trump e Putin porti in qualche modo gli Usa a «concepire un approccio solido, prudente e calibrato nei confronti della Russia, un approccio che si appelli ai valori non come fosse propaganda, ma come la base di una politica estera più chiara e credibile».

Come Harvey e Khrushcheva, anche lo storico dell’economia Robert Skidelsky si focalizza sull’impatto che avrà sulla Russia l’espansione verso est della Nato nell’Europa centrale e negli Stati baltici ex sovietici. Anche Skidelsky è fortemente critico rispetto al regime di Putin e agli «abusi dei diritti umani, agli assassinii, agli sporchi trucchi e ai procedimenti penali per intimidire gli avversari politici». Detto questo, crede che «la Russia autoritaria e anti-liberale di oggi sia tanto il prodotto dell’inasprimento delle relazioni con l’Occidente quanto della storia russa ovvero della minaccia di disintegrazione che la Russia affrontò negli anni Novanta».

Skidelsky prende in prestito una tesi dell’analista russo Dmitri Trenin. «L’Occidente – afferma – dovrebbe temere più la debolezza della Russia che i suoi progetti imperialisti». Anche Harvey crede che «la posizione della Russia oggi sia ancor meno sicura di quanto non fosse negli anni Ottanta, quando l’economia indebolita dell’Unione sovietica non riuscì più a reggere il controllo di una buffer zone nell’Est Europa e di aree satellite in altre zone». Mentre, però, Harvey crede che «ben presto l’incompetenza economica di Putin gli presenterà il conto» e che l’Occidente debba attendere fino a quando ciò accadrà, Skidelsky non vede «nessuna ragione per cui non si possa stabilizzare una relazione che funzioni meglio».

“L’Occidente dovrebbe temere più la debolezza della Russia che i suoi progetti imperialisti”

Robert Skidelsky, storico dell’economia 

Sono tre le ragioni, secondo Skidelsky. La prima: «I colpi di politica estera ben assestati da Putin, per quanto opportunistici, sono stati cauti». La seconda: «Con la potenza americana in declino e quella cinese in ascesa, una ristrutturazione delle relazioni internazionali è inevitabile»; e la terza: «La Russia potrebbe rivestire un ruolo costruttivo in questo processo di revisione, se non sopravvaluterà la propria forza». E, riprendendo anche qui la visione di Harvey, Skidelsky fa notare che «la Russia ha dimostrato» nel patto nucleare con l’Iran e nell’eliminazione delle armi chimiche della Siria «di poter lavorare con gli Usa per perseguire interessi comuni».

Ma per Carl Bildt, ex primo ministro e ministro degli Esteri svedese, ci sono diverse ragioni per diffidare di qualsiasi riavvicinamento con la Russia. Tanto per iniziare, mentre Skidelsky intravede in Putin un leader cauto, Bildt lo considera una figura scaltra. «Ogniqualvolta se ne presenti l’occasione – osserva Bildt – il Cremlino è pronto a usare tutti i mezzi a sua disposizione per riprendersi ciò che considera di sua proprietà». Anche senza «un piano definito ed esaustivo per restaurare l’impero», scrive Bildt, Putin «ha indubbiamente una chiara inclinazione a compiere avanzate di tipo imperialistico ogniqualvolta il rischio sia ragionevole, come è accaduto in Georgia nel 2008 e in Ucraina nel 2014».

Inoltre, Khrushcheva e Skidelsky si sbagliano, secondo Bildt, a mettere in dubbio l’allargamento della Nato. «L’ampliamento sia della Nato che dell’Unione europea per includere i Paesi dell’Europa centrale e i Paesi del Baltico è stato fondamentale per la sicurezza europea», insiste Bildt. «In qualsiasi altro scenario, saremmo probabilmente già bloccati in una lotta di potere profondamente pericolosa con una Russia revanscista che reclama i territori persi». E prosegue: «La Russia farà i conti con se stessa solo se l’Occidente sosterrà fermamente l’indipendenza di questi Paesi per un lungo periodo di tempo». In questo caso, «la Russia realizzerà che è nel proprio interesse di lungo termine spezzare questo modello storico, concentrarsi sullo sviluppo domestico e instaurare relazioni pacifiche e rispettose con i propri vicini».

La Cina prima di tutto
Forse l’inversione di rotta più pericolosa della politica estera che Trump sembra voler intraprendere riguarda la posizione degli Stati Uniti rispetto alla Cina. Christopher Hill, ex vice segretario di Stato americano, fa notare che Trump sembra «essere giunto alla conclusione che il miglior modo di sovvertire la posizione strategica della Cina sia di sottoporre a riesame tutte le passate convenzioni, compresa la politica chiamata ’One China’». In modo analogo, Stephen Roach dell’Università di Yale, ex presidente di Morgan Stanley Asia, crede che Trump stia «contemplando un’ampia serie di sanzioni economiche e politiche, dall’imposizione di dazi punitivi e dall’etichettare la Cina come ’manipolatrice valutaria’ a un avvicinamento a Taiwan».

Sia Hill che Roach prevedono un fallimento strategico se gli Usa perseguiranno questo approccio. Se da un lato «i preconcetti anti-Cina» dell’amministrazione Trump «sono senza precedenti nella storia moderna», osserva Roach, la sua strategia «si basa sull’errata convinzione che un’America nuovamente in forze abbia tutto il potere di affrontare il suo presunto avversario, e che qualsiasi risposta cinese non meriti considerazione». Ma, secondo Hill, «la Cina non è un’azienda subappaltatrice in un progetto edile e dispone dei mezzi necessari per fare pressioni sulla nuova amministrazione americana».

Roach lo spiega chiaramente: se gli Usa «insisteranno con le minacce, c’è da aspettarsi che la Cina replichi applicando sanzioni alle aziende americane che operano lì, e alla fine con i dazi sulle importazioni americane, considerazioni alquanto banali per un’economia Usa priva di crescita». La Cina potrebbe altresì diventare «decisamente meno interessata ad acquistare titoli di debito del Tesoro, e questo è un problema potenzialmente serio, considerati gli ampi deficit di bilancio federale che potrebbero verificarsi con la Trumponomics».

Anche escludendo tali esiti, Trump sembra chiaramente aver iniziato il proprio mandato disarmando i principali strumenti di influenza americana in Asia, ossia quelli derivanti dalle garanzie postbelliche dell’America sulla sicurezza e dalla sua gestione delle istituzioni multilaterali che hanno nutrito l’apertura economica globale. E, considerato il suo protezionismo e la rinuncia del Tpp, è probabile che la Cina finisca per assumere l’egemonia regionale cui si sono opposti diversi presidenti americani, sia Repubblicani che Democratici.

La leadership globale potrebbe non essere troppo lontana. Come fa notare Palacio, il presidente cinese Xi Jinping, che ha parlato per la prima volta al meeting annuale del World Economic Forum all’inizio di questo mese, è «ora il campione della globalizzazione». Daniel Silke, stratega politico del Sud Africa, va persino oltre. «L’ascesa della Cina ha fornito una nuova orbita per molti Paesi di tutto il mondo – soprattutto per le economie in via di sviluppo e quelle emergenti», osserva Silke, e le sue «eccezionali doti diplomatiche in tutto il continente africano (e sempre più nel Sudest asiatico) l’hanno resa una forza egemonica alternativa». Dal momento che gli Stati Uniti si tirano fuori e sperperano il proprio soft power (ad esempio, tagliando gli aiuti per lo sviluppo), la Cina guadagnerà «nuove opportunità per cementare il suo ruolo di provider di investimenti e di ogni specie di infrastruttura e assistenza a una serie di Paesi desiderosi di svilupparsi».

“La Cina non è un’azienda subappaltatrice in un progetto edile e dispone dei mezzi necessari per fare pressioni sulla nuova amministrazione americana”

Christopher Hill, ex vice segretario di Stato americano 

Mentre però Silke vede una Cina che è «desiderosa di trovare una nicchia di soft-power in cui potersi affermare e ricevere consensi», l’analista strategico indiano Brahma Chellaney vede solo la freddezza del realismo strategico. I leader cinesi sono diventati estremamente abili nell’«utilizzare gli strumenti economici per favorire gli interessi geostrategici del proprio Paese», sostiene Chellaney, allo scopo «di creare una sinosfera egemonica sul fronte del commercio, della comunicazione, del trasporto e dei collegamenti per la sicurezza». Per farlo, il governo cinese sta ingegnosamente «integrando le proprie politiche estere, economiche e in materia di sicurezza». Se i Paesi in via di sviluppo rilevanti a livello strategico «sono degli Stati cui accollare debiti onerosi, i loro guai finanziari finiranno per aiutare solo i piani neocoloniali della Cina».

Pax Asiana?
Cosa succede se i Paesi asiatici riescono a opporsi ai progetti egemonici della Cina in un tempo in cui Trump mette in dubbio gli impegni dell’America nella regione? Anne-Marie Slaughter di New America e Mira Rapp-Hooper del Center for a New American Security ci forniscono un’analisi su cui riflettere. «Molti Paesi asiatici, tramite un coinvolgimento politico profondo e prevedibile con gli Usa, sono cresciuti rassicurati dall’impegno dell’America per la loro sicurezza», fanno notare. «E rispetto agli accordi multilaterale in materia di sicurezza come la Nato, le alleanze asiatiche dell’America si fondano su singoli patti bilaterali», lasciandole «particolarmente vulnerabili alle vicissitudini di Trump».

Invece di «scivolare nella disperazione», continuano Slaughter e Rapp-Hooper, «gli alleati asiatici dell’America dovrebbero prendere in mano la situazione e iniziare a creare una rete». Creare un’architettura regionale resistente sul fronte della sicurezza non è mai stata prima d’ora una priorità assoluta, soprattutto grazie a quelle garanzie bilaterali sulla sicurezza offerte dagli Stati Uniti. «Creando e istituzionalizzando legami tra loro – secondo Slaughter e Rapp-Hooper – gli alleati degli Usa in Asia possono riplasmare la propria rete regionale per la sicurezza passando da una stella Usa-centrica a un modello a rete, in cui siano connessi l’uno l’altro come lo sono con gli Stati Uniti». Ciò darebbe loro «un sistema in grado di rafforzare la stabilità per i tempi incerti».

Ma si tratterebbe anche di un impegno a lungo termine. Nel breve termine, la stabilità dell’Asia sarà nelle mani di Trump, che, secondo Joseph Nye di Harvard, dovrebbe diffidare «di due importanti trappole che la storia ha in serbo per lui». Una è la cosiddetta trappola di Tucidide, che prende il nome dall’antico storico greco della guerra del Peloponneso, secondo cui «la guerra cataclismica può scoppiare quando una potenza consolidata (come gli Stati Uniti) si intimorisce troppo di fronte a una potenza in ascesa (come la Cina)». L’altra, asserisce Nye, è la “trappola di Kindleberger”, dal nome di Charles Kindleberger, che «sosteneva che il decennio disastroso degli anni Trenta è scoppiato quando gli Usa hanno sostituito la Gran Bretagna come maggiore potenza globale, ma non sono riusciti ad assumere il ruolo dei britannici nel fornire beni pubblici globali».

“Un problema per il mondo oggi è che Trump deve aver paura di una Cina che sia troppo debole e troppo forte”

 

In altre parole, invece di essere troppo forte, la Cina potrebbe essere troppo debole per la leadership globale. «Sotto pressione e isolata dalla politica di Trump – si chiede Nye – riuscirà la Cina a diventare un free rider dirompente in grado di spingere il mondo in una trappola di Kindleberger?» Secondo Nye, negli anni Trenta, la trappola – causata dal free riding degli Stati Uniti – contribuì al «collasso del sistema globale che provocò depressione, genocidio e guerra mondiale».

Quindi, un problema per il mondo oggi è che Trump «deve aver paura di una Cina che sia contemporaneamente troppo debole e troppo forte». Ma un altro forse ben più serio timore deriva dal fatto che, considerata l’ostinata ignoranza e l’incorreggibile indisciplina di Trump, alla fine non conterà né la trappola di Tucidide, né la trappola di Kindleberger. Come riconosce Nye, le guerre spesso sono «causate non da forze impersonali, ma da pessime decisioni prese in circostanze difficili». Al fine di eludere le trappole strategiche, conclude Nye, Trump «deve evitare gli errori di calcoli, i preconcetti e giudizi impulsivi che affliggono la storia umana».

Trump è davvero in grado di fare questo? A giudicare dai suoi primi sei giorni di mandato, la sua presidenza stessa sembra essere una lunga parata di manchevolezze umane di questo genere. E il settimo giorno certamente non si riposerà.

Traduzione di Simona Polverino

Copyright: Project Syndicate, 2017

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