Caro Direttore,
l’appello di Luigi Zingales ad avviare un dibattito “serio e costruttivo” sull’euro (Il Sole 24 Ore del 16 aprile) mi ha sorpreso. Premetto che conosco Zingales da diversi anni e che in passato ho apprezzato alcuni suoi contributi accademici nel campo della finanza; so anche che negli ultimi tempi egli ha espresso opinioni critiche sull’euro e sull’Unione europea. Non mi meravigliano quindi né la chiamata rivolta alla comunità accademica né l’implicito invito a sfatare, usando lo strumento dell’analisi, presunti luoghi comuni sull’irreversibilità della moneta unica e sull’adesione dell’Italia.
Quello che sorprende è che l’appello sia lanciato senza avvertire l’ignaro lettore che l’argomento è stato oggetto di interminabili discussioni per decenni, senza che si sia mai raggiunto alcun consenso sul piano dell’analisi economica.
Cominciò all’inizio degli anni cinquanta Milton Friedman (Università di Chicago), al tempo in cui le parità monetarie erano fisse in tutto il mondo, con uno studio in cui sosteneva i vantaggi dei cambi flessibili. Pochi anni dopo arrivò Robert Mundell, anche lui fresco di studi a Chicago, con un altro studio in cui mostrava che a certe condizioni era preferibile un sistema di cambi fissi. Mundell è stato poi chiamato, forse a sproposito, il “padre dell’euro”. Da allora il dibattito è rimasto sostanzialmente fermo su quegli argomenti, né l’enorme massa di dati portati a supporto delle due tesi ha mai potuto dirimere la controversia.
La politica si è espressa in modo più netto. Dal dopoguerra a oggi (o meglio dal 1971, data che segna la fine del sistema mondiale dei cambi fissi) i Paesi europei hanno costantemente, anche se con difficoltà, cercato di stabilizzare i rapporti di cambio, nella convinzione che le oscillazioni delle parità monetarie fossero di ostacolo al mercato unico e al progetto più generale di integrazione e cooperazione nel continente. La creazione dell’euro, il compimento di quell’aspirazione, fu non solo approvata formalmente da tutti i Paesi, ma sostenuta a grande maggioranza dall’opinione pubblica. Quando venne introdotto, l’euro godeva del sostegno dell’84% degli italiani (sondaggio Eurobarometro); un dato fra i più alti dell’eurozona. Oggi la percentuale di approvazione in Italia è più bassa che negli altri Paesi (dove si sta riprendendo), ma rimane comunque superiore al 50%.
Pur rimanendo scettico sulla possibilità di risolvere la questione seguendo le regole proposte da Zingales, condivido la passione per il civile confronto delle idee. Penso anche che in un momento di divisione e disorientamento del Paese sia dovere di coloro che a diverso titolo fanno di questi temi una professione ripensare le proprie convinzioni ed esporle in modo chiaro, cosicché esse possano essere comprese e giudicate. Per questa ragione ho spiegato le mie idee sull’euro e sulla permanenza dell’Italia in esso in uno scritto che viene pubblicato oggi in un volume di vari autori su temi analoghi. Per ragioni di spazio, mi limito qui a riassumere qualche considerazione.
L’Italia ha vissuto la sua “età dell'oro” (così l’ha chiamata Gianni Toniolo), con tassi di crescita annuali oltre il 5%, nel periodo postbellico in cui i cambi erano fissi. Dagli anni settanta, la lira si è progressivamente e drammaticamente svalutata ed è subentrato gradualmente il cosiddetto “declino”. Significa questo che fissando il cambio si ottengono automaticamente alti tassi di crescita? Evidentemente no. Giocavano allora, come oggi, altri fattori. Questo semplice fatto dovrebbe però far riflettere tutti coloro che contano sulla mera svalutazione della moneta per stimolare la crescita nel cosiddetto “lungo periodo”. Alcuni critici dell’euro portano poi ad esempio gli Stati Uniti, che sarebbero dotati, a differenza dell’eurozona, di istituzioni che consentono all’unione monetaria di funzionare – meccanismi di redistribuzione, un bilancio federale, una completa unione bancaria, e quant’altro. Quei critici dimenticano che gli Stati Uniti hanno introdotto quegli strumenti oltre un secolo dopo avere adottato il dollaro, e dopo una guerra civile, molte crisi finanziarie, e la Grande Depressione. Un esperto del processo di integrazione americana come Randall Henning ha scritto, ironicamente, che a confronto quello europeo è “molto educato”.
Negli ultimi anni, dopo che Mario Draghi ha annunciato che avrebbe usato tutti gli strumenti disponibili per difendere l’euro e dopo che la banca centrale ha dispiegato le sue manovre espansive, la crescita economica nell’eurozona (Italia esclusa) si è assestata intorno al 2%; in Italia, si colloca intorno all’1%. La Spagna, Paese che ha subito una grave crisi e ha dovuto ricorrere all’aiuto internazionale, cresce oggi a più del 3%. L’appartenenza all’euro comporta insieme ai vantaggi anche regole e vincoli, ma questi semplici esempi dovrebbero far riflettere quelli che vedono la moneta unica come una gabbia in cui prospera solo la Germania, e che ritengono che la stagnazione italiana dipenda dall’euro e non da problemi intrinsechi del nostro Paese. Su questi ultimi bisogna concentrarsi, senza cercare diversivi.
Auguro a Zingales e al Sole 24 Ore un proficuo dibattito su questi importanti temi. Non auguro invece a nessun lettore di questo giornale di ritrovarsi cittadino di un Paese che tentasse l’improvvida avventura di staccarsi dall’euro e dall’Unione Europea. Nessuno di questi due è perfetto: dobbiamo lavorare insieme, dall’interno, per migliorarli.
*Ignazio Angeloni è membro del Consiglio di vigilanza della Banca centrale europea
Il dibattito, ne siamo certi, è e sarà proficuo data l’autorevolezza dei contributi alla discussione. Naturalmente, anche noi non ci auguriamo di assistere a qualsivoglia tentativo di staccare l’Italia dall’Europa e dall’euro. Anzi, ci opporremo con forza ad una simile prospettiva. Proprio nella consapevolezza che nessuno dei due, come lei scrive, è perfetto e che si deve lavorare insieme, dall’interno, per migliorarli.
Guido Gentili
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