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Dossier Bisogna migliorare l’architettura della Ue

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    Dossier | N. 25 articoli#Eurodibattito

    Bisogna migliorare l’architettura della Ue

    Concordiamo con Debenedetti sul fatto che non si può separare, come ha proposto di fare Luigi Zingales, la discussione sui costi/benefici dell’euro a regime da quella sui costi della transizione, nonché da un discorso più ampio di natura politica e prospettica.

    Come è scritto nell’appello dei 24 Premi Nobel, tra i quali Joseph Stiglitz, contro le strumentalizzazioni di Marine Le Pen, c’è una grande differenza fra decidere di non aderire all’euro e decidere di uscirne dopo avervi aderito. Peraltro qualunque analisi costi/benefici non può prescindere dal considerare i costi di transizione, specie laddove vi sia, come in questo caso, un’ampia convergenza nel ritenere che tali costi siano effettivamente ingenti.

    Nell’articolo sul Sole 24 Ore del 20 aprile, Paul Krugman, un economista che peraltro ha più volte aspramente criticato l’Unione Monetaria, afferma che i «costi di transizione […] sarebbero enormi: la fuga di capitali su larga scala provocherebbe una crisi bancaria, bisognerebbe imporre controlli di capitali e chiudere le banche fino a nuovo ordine, il problema di come valutare i contratti creerebbe un pantano legale e si aprirebbe un lungo periodo di confusione e incertezza che seminerebbe caos nelle imprese».

    Secondo, Yanis Varoufakis, un personaggio che non può certo essere sospettato di simpatie per l’establishment europeo, «potrebbe addirittura scoppiare una nuova guerra; magari non si tratterebbe di una guerra vera e propria, ma le nazioni si scaglierebbero l’una contro l’altra. In un modo o nell’altro, l’Europa farebbe ancora una volta affondare l’economia mondiale […]. Avremmo condannato il mondo intero ad almeno una generazione perduta».

    All’origine di queste analisi, vi è un importante scritto di Barry Eichengreen, uno dei più noti storici dell’economia, che definisce la rottura dell’euro come «la madre di tutte le crisi». E vi è ovviamente l’esperienza della corsa ai bancomat durante le crisi della Grecia e di Cipro nel 2015.

    Vi è anche l’esperienza delle tante svalutazioni del passato. Quando i mercati e anche i comuni cittadini temono che i propri soldi siano a rischio, le fughe di capitale diventano rapide e massicce, anche quando sono presenti rigidi controlli sul sistema finanziario e sui movimenti valutari. In Italia nel gennaio 1976, nel giro di pochi giorni si azzerarono le riserve valutarie del Paese, malgrado qualunque movimento valutario dovesse essere autorizzato per legge dall’Ufficio italiano cambi. Si consideri anche che la macchina dei controlli sui movimenti di capitale non può essere messa in funzione in una notte, ma richiede molti mesi.

    Nel caso di un Paese con alto debito pubblico come l’Italia si porrebbe un problema aggiuntivo, che è assolutamente cruciale. Se il debito venisse lasciato in euro, la svalutazione comporterebbe un aumento molto consistente del rapporto debito Pil; con una ipotetica svalutazione del 30%, raggiungerebbe circa il 190% del Pil. Se invece il debito venisse ridenominato nella nuova valuta, per le agenzie di rating e — ciò che più conta — per i mercati finanziari si tratterebbe di un default, a seguito del quale le aste dei titoli di stato andrebbero ovviamente deserte. Ed è impensabile che la Banca centrale possa sostituirsi ai mercati ed emettere base monetaria per un ammontare pari allo stock di debito, ossia il 132,5% del Pil.

    Chi auspica l’uscita dall’euro, ritiene che una svalutazione del cambio porterebbe qualche beneficio alle esportazioni nette e — per questa via — alla crescita del Pil e all’occupazione. Va però ricordato che questi risultati sono possibili solo se la svalutazione è accompagnata da una compressione dei salari reali. Come disse nel 1967 il primo ministro britannico James Callaghan, sulla scorta delle classiche analisi di James Meade: «Coloro che auspicano una svalutazione stanno in realtà chiedendo una compressione dei livelli salariali e dei salari reali di ogni membro della classe lavoratrice». Questo concetto è ormai bagaglio acquisito di molte organizzazioni sindacali e delle forze politiche tradizionali europee. Peraltro è anche il succo del dibattito teorico fra fautori dei cambi flessibili e dei cambi fissi. Milton Friedman preferiva i cambi flessibili perché riteneva che fosse molto difficile ridurre in altro modo il livello dei prezzi interni e i salari reali.

    Chi pensa che si debba rimanere nell’euro, ritiene che vi siano altri modi per recuperare competitività: riforme economiche per migliorare la produttività del sistema, riforme del sistema fiscale oppure accordi di moderazione salariale con i lavoratori e loro rappresentanti. Chi vuol uscire dall’euro, pensa che l’unico modo per recuperare competitività sia lo strumento subdolo della svalutazione del cambio e dell’erosione del potere d’acquisto dei salari.

    Guardando alla prospettiva, osserviamo che coloro che rifiutano l’ipotesi d’uscita dall’euro non difendono lo status quo, ma pensano che verranno superati gli errori compiuti durante la crisi e che prima o poi si riuscirà a migliorare l’architettura dell’Unione, costruendo un bilancio europeo e una politica europea pienamente legittimata sul piano democratico.

    Forse è più utile discutere di queste cose che di ipotesi drammatiche di rottura dell’euro che rischiano di farci tornare ai conflitti fra nazioni che pensavamo di aver abbandonato per sempre.

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