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Dossier Italia fuori dall’euro? Nella storia non c’è retromarcia

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    Dossier | N. 25 articoli#Eurodibattito

    Italia fuori dall’euro? Nella storia non c’è retromarcia

    Ci sono ragioni valide per sostenere che la creazione dell’euro e la partecipazione dell’Italia siano stati due errori storici. Il problema, come sappiamo ora, è che un’unione monetaria senza unione bancaria e unione politica non funziona. O almeno non funziona in modo soddisfacente per tutti.

    Il primo decennio dell’euro ha visto un’imponente spostamento di capitali dall’Europa settentrionale, dove i tassi di interesse erano bassi, all’Europa meridionale, dov’erano più alti. Non c’era un’autorità di vigilanza unica, e più in generale non c’era nessuna unione bancaria che tenesse conto dell’impatto che avrebbe avuto la regolamentazione lasca delle banche francesi e tedesche su questi flussi, e come ne sarebbero stati influenzati i Paesi beneficiari.

    I flussi che ne sono risultati hanno fatto scendere i tassi di interesse in tutta l’Europa meridionale. La possibilità di finanziare i consumi a buon mercato ha creato un falso senso di prosperità, che ha incoraggiato i Paesi beneficiari a rinviare le riforme e ha consentito decisioni di investimento avventate, che ora gravano sulle istituzioni finanziarie che le hanno intraprese.

    Il risultato è che l’Italia si trova oberata da un sistema bancario debole, una crescita anemica e vincoli sulla ricapitalizzazione delle banche ispirati dalla Germania. Sempre più italiani hanno la percezione che il loro Paese sia bloccato e che serva qualcosa di radicale per «sbloccarlo».

    Ma riconoscere che adottare l’euro è stato un errore non significa che la linea d’azione migliore sia abbandonarlo ora. La storia non ha la retromarcia. Uscire dall’euro non risolverebbe i problemi dell’Italia.

    I vincoli alla crescita sono le restrizioni dei mercati dei prodotti e un sistema fiscale inefficiente, che deprime la produttività e scoraggia gli investimenti. I lettori italiani non hanno certo bisogno della lezioncina di un economista straniero per sapere che queste situazioni vanno cambiate.

    L’interrogativo è se abbandonare l’euro accelererebbe queste riforme. Chi afferma di sì sostiene che reintroducendo la lira e svalutandola le esportazioni e la crescita del Belpaese riceverebbero una spinta. Dal momento che la torta si ingrandirebbe, gli interessi costituiti sarebbero meno determinati a difendere la loro fetta immutabile e più inclini ad accettare riforme che accrescono la flessibilità.

    Però non esistono dati che indichino in modo univoco che i Paesi fanno più riforme nei periodi in cui l’economia tira. E anche il confronto tra l’esperienza italiana negli anni relativamente positivi prima del 2007 e gli anni più difficili successivi a quella data non induce a pensare che più prosperità renda possibile fare più riforme. Anzi, induce a temere che la reintroduzione della lira sarebbe visto come una sorta di elisir magico che rende inutili ulteriori riforme.

    Inoltre, abbandonare l’euro avrebbe due costi seri. Il primo è che scatenerebbe il caos finanziario. Sapendo che la lira viene introdotta per lasciarla deprezzare rispetto all’euro, gli investitori fuggirebbero via. Il mercato azionario e il mercato obbligazionario crollerebbero. Importanti istituzioni finanziarie diventerebbero insolventi e bisognerebbe chiudere le banche a tempo indeterminato come è successo a Cipro, e dopo imporre restrizioni sui prelievi. Dovrebbero essere applicati controlli di capitale come quelli che l’Islanda ha appena eliminato (quasi dieci anni dopo averli introdotti). Non sembrano le condizioni ideali per un pronto ripristino della crescita.

    I detrattori dell’euro ribatteranno che questi allarmi sono esagerati e sosterranno che la transizione può essere gestita senza scossoni. Io non penso. Precedenti casi di unioni monetarie sciolte senza contraccolpi sono avvenuti in circostanze molto diverse, che non hanno nessuna attinenza con la situazione odierna dell’Italia.

    Il secondo costo sarebbe quello di mettere a rischio l’accesso dell’Italia al mercato unico. L’abbandono dell’euro sarebbe visto dai partner europei come un atto ostile, una revoca da parte italiana dei doveri prescritti dai trattati. Il deprezzamento della lira sarebbe visto come un tentativo di risolvere i problemi degli esportatori italiani a spese dei loro concorrenti esteri, spingendo la Germania e altri a replicare con restrizioni ai commerci. Il Regno Unito ha scoperto che abbandonare l’Unione Europea conservando l’accesso al mercato unico è (come dirlo in modo educato?) complicato. L’Italia scoprirebbe che abbandonare l’euro conservando pieno accesso al mercato unico è altrettanto complicato.

    Tutto questo non significa che non ci siano delle falle da tappare nella struttura della zona euro. Il processo dovrebbe partire dal completamento dell’unione bancaria, rimasta a metà. Dovrebbe proseguire con una completa disconnessione delle banche dal mercato del debito pubblico, imponendo requisiti aggiuntivi di capitale se tengono in portafoglio titoli di Stato, invece di continuare con la finzione che quelle obbligazioni siano prive di rischio.

    Il passo successivo sarebbe restituire la responsabilità della politica di bilancio alla sua sede naturale, i Governi nazionali. Ci sono preferenze nazionali differenti in materia di politiche di bilancio, e i tentativi di supervisione di Bruxelles servono soltanto ad aggravare le tensioni. Le contese che ne sono nate hanno peggiorato le prospettive di integrazione politica, creando conflitti e disarmonia. Non c’è decisione di politica nazionale più intima di quanto tassare e cosa spendere. La tesi, popolare in Germania, che il «rimpatrio» delle competenze in materia sia impraticabile perché la politica di bilancio ha forti ripercussioni oltreconfine non è supportata dai dati. Se il timore è che l’indisciplina di bilancio destabilizzi le banche costringendo la Bce a rispondere con finanza inflazionistica, allora la soluzione è semplicemente, di nuovo, disconnettere le banche dal mercato del debito pubblico.

    La terza riforma essenziale è buttare a mare le regole europee sul bail-in, che impediscono al Governo italiano di usare le sue risorse di bilancio per ricapitalizzare le banche.

    Se rimane nell’euro, l’Italia avrà la possibilità di sostenere queste riforme. Se ne resta fuori, avrà poche speranze di influenzare le decisioni dei suoi vicini. Certo, in assenza di riforme l’euro rimarrà una pietra al collo del Paese. Ma in definitiva se l’economia italiana affonderà o resterà a galla non dipenderà dal peso di questa pietra, ma dalla capacità di intraprendere le riforme necessarie in patria.

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