L’Italia si ritrova in una selva oscura, ché la diritta via è smarrita. E anche la diritta via presenta dei pericoli.
I più ovvi e più frequentemente citati tra i benefici di un’uscita dell’Italia dall’euro includono la riconquista della competitività attraverso una svalutazione della moneta e un qualche tipo di default de facto sul debito pubblico che inevitabilmente si accompagnerebbe all’abbandono dell’Eurozona (perché in caso contrario il peso di un debito denominato in euro sarebbe intollerabile).
Ma questi benefici sono abbastanza illusori, perché il guadagno di competitività probabilmente verrebbe rapidamente cancellato dagli aumenti salariali indotti agli aumenti dei prezzi (sospinti dalle importazioni di beni essenziali, nel caso dell’Italia l’energia). I potenziali guadagni nell’immediato sarebbero compensati dai timori per le incertezze a lungo termine e il caos politico che seguirebbe a un’uscita. Il meccanismo di uscita non risolverebbe in alcun modo il problema di competitività a lungo termine dell’Italia. Al contrario, il Belpaese sarebbe colpito da un aumento dell’inflazione, che si tradurrebbe immediatamente in costi maggiori per il servizio del debito, sia per lo Stato che per le imprese. Peggio ancora: l’aumento dell’incertezza spingerebbe ancora più in su i tassi di interesse, perché gli investitori comincerebbero a chiedere premi di rischio più elevati.
Vale la pena anche provare a immaginare che cosa sarebbe successo se l’Italia non avesse fatto parte dell’Eurozona. Dopo lo scoppio della crisi finanziaria mondiale del 2007-2008 i flussi di capitale si sono invertiti, producendo spettacolari contrazioni dell’economia in alcuni Paesi dell’Eurozona, ma Paesi europei che fanno parte dell’Unione Europea ma non dell’Eurozona (come la Romania) o che non fanno proprio parte dell’Unione Europea (come la Serbia) sono stati colpiti altrettanto pesantemente. Quello che l’appartenenza all’Eurozona ha garantito è stato l’accesso a meccanismi di stabilizzazione, acquisti di titoli da parte della Bce e saldi Target2. Insomma, fuori dall’euro l’Italia sarebbe ancora più esposta ai venti di burrasca dei mercati dei capitali internazionali.
L’unico realistico beneficio potenziale a lungo termine di un’uscita dall’euro verrebbe dalla rimozione di quello che è diventato un pesante fardello politico-psicologico: l’idea che sia l’euro a imporre i vincoli che impediscono all’Italia di recuperare competitività. La vera fonte delle difficoltà del Paese è la pervasività di quest’idea fra gli italiani di ogni ordine e grado, da alti funzionari e numerosi studiosi fino all’uomo della strada. In sostanza, l’euro è diventato una scusa fin troppo facile per evitare di affrontare i problemi di competitività.
È vero che l’euro rappresenta un vincolo. Quando veniva perorata la causa dell’adozione della moneta unica in Italia si usavano termini come «legare le mani». Le condizioni di bilancio associate all’appartenenza alla moneta unica hanno creato vincoli esterni che hanno reso impossibile portare avanti politiche incoerenti. Non era più percorribile, quindi, la strada di pompare la crescita velocemente con uno stimolo di bilancio che faceva impennare temporaneamente l’economia ma poi faceva salire i livelli salariali. Il tasso di cambio fisso permanente ha messo fine al ciclo infinito di boom economici che finivano per produrre inflazione e far esplodere i costi, costringendo a svalutare la moneta per ripristinare la competitività.
I vincoli hanno significato anche tassi di interesse più bassi e un minor costo di indebitamento per lo Stato, e questo si è tradotto in condizioni creditizie migliori per le imprese. Ma il minor costo di indebitamento negli anni 2000 non è servito a incrementare la produttività.
Il problema dell’imposizione di vincoli esterni è che crea un meccanismo psicologico di trasferimento della colpa. Quando la politica economica che risulta da quei vincoli non produce crescita, allora l’euro viene reinterpretato come una trappola. Quando i salari sono saliti nonostante i vincoli esterni e la crescita ha cominciato a traballare, non c’era nessuna via d’uscita. L’euro ha quindi la responsabilità di aver intrappolato l’Italia in uno scenario a bassa competitività. L’Italia vive sulla propria pelle la storia che gli italiani raccontavano quando volevano entrare nella moneta unica.
Ma anche gli altri si sentono in trappola. A volte, e in particolare nei Paesi del Sud Europa, la Germania viene descritta come il Paese che più ha beneficiato dell’euro. Ma i tedeschi non vedono i vantaggi commerciali della moneta unica, specialmente ora che il Sud Europa compra meno prodotti tedeschi, meno automobili e macchine utensili, a causa del tracollo dei consumi e degli investimenti. Invece, vedono crescere le passività finanziarie nel sistema dei pagamenti, i saldi Target2 che risultano dai trasferimenti di denaro al sistema bancario dell’Europa meridionale.
Questa situazione in cui entrambe le parti si sentono in trappola sembra una variante della famosa dialettica servo-padrone nella Fenomenologia dello spirito di Hegel. Tutte e due le parti sono legate allo stesso modo: il servo non è riconosciuto come pienamente umano, come uguale, dal padrone e non è libero: il padrone è libero, ma sente di non essere riconosciuto come essere umano dal servo: è costantemente preoccupato per la fragilità della relazione e per il fatto che il servo sta costruendo un universo di valori alternativo, in cui il padrone non è rappresentato.
Alcuni sostengono che lo scenario «positivo» di un’uscita dalla dialettica servo-padrone sarebbe che gli italiani, senza l’euro, comincerebbero a rendersi conto che la responsabilità dei loro problemi è esclusivamente loro. Sarebbero più propensi a criticare i governi che non fanno le riforme economiche, o impongono oneri fiscali che affossano le imprese innovative, o soffocano l’attività imprenditoriale con restrizioni. Lavorerebbero per innovare, coltiverebbero i mercati di nicchia mondiali che stanno perdendo e capitalizzerebbero i punti di forza storici dell’Italia (design, artigianato ecc.). Creerebbero reti collaborative tra i distretti industriali più dinamici e vincenti. Ma questa speranza è un’illusione: ci sarebbe sempre qualcun altro su cui scaricare la colpa. È importante far notare che nessuna delle cose che attualmente impediscono agli italiani di realizzare uno qualunque di questi atti di costruzione economica ha a che fare con le imposizioni concrete dell’euro e del suo quadro giuridico, incluso nel Patto di stabilità e crescita. L’unica eccezione è di vitale importanza: il vincolo di bilancio. Ma questa limitazione europea dev’essere reinterpretata come un meccanismo per guidare la finanza pubblica lontano dalla filosofia degli stimoli a breve termine e in direzione di obiettivi di crescita dinamici a lungo termine.
L’Europa potrebbe aiutare l’Italia a disegnare un quadro di crescita che includa un clima di stabilità e incertezza, ma dia la possibilità di affrontare i problemi specifici dell’Italia, come il difficile compito di mettere in sicurezza le frontiere e gestire i flussi di rifugiati.
C’è un modo meno doloroso per dare una scossa agli italiani e indurli ad accollarsi la responsabilità del proprio destino che spingere il Paese a fare un salto radicale in un futuro incerto. Gli italiani dovrebbero smetterla di pensare all’Europa come qualcosa che «lega le mani» e concepirla come una fonte di capitali, tecnologia, idee, e anche come un grande mercato che permette di «usare le mani». Altrimenti, si ritroveranno in una selva oscura.
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