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Dossier Le pericolose illusioni della rinuncia all’euro

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    Dossier | N. 25 articoli#Eurodibattito

    Le pericolose illusioni della rinuncia all’euro

    Tra il 1987 e 1988 studiamo i “Costi della Non Europa”, sintetizzati nel rapporto “Cecchini”, contenente le linee guida per il mercato unico europeo del 1993. L'intento è di eliminare frontiere, protezionismi dissimulati in requisiti tecnici e norme che impediscono ad esempio ad una impresa italiana di partecipare ad un appalto in Germania. L'Europa comunitaria nasce negli anni 50 in un clima lontano da quello di oggi. Nel carbone e nell'acciaio l'integrazione ricalca un accordo di cartello. Da sinistra e non solo si criticano protezione di grandi imprese e agricoltori. E si teme l'eliminazione dei dazi intra-comunità tanto che si scommette su quali settori Germania o Francia divoreranno paventando penose distruzioni di italico capitale umano e industriale. Le cose vanno diversamente. Cresce la concorrenza. La fine dei dazi intraeuropei, raggiunta nel 1969, non genera i temuti scippi di comparti produttivi tra paesi. Protagoniste inattese, indipendentemente da settore e paese di appartenenza, sono le imprese che in un vasto mercato senza barriere crescono e si confrontano. Di questo “miracolo” si accorgono economisti come Krugman e gli inglesi che bussano alla Comunità la cui porta viene loro aperta nel 1975. A fine anni 80, nelle interviste per la ricerca sui “costi della Non Europa” siamo sorpresi. Tante imprese europee non trovano differenza tra vendere nel mercato nazionale o in un paese partner. Scala di produzione, gamma dei prodotti, standard qualitativi, tecnologie sono calibrati sull'Europa, già nel DNA delle imprese che chiedono di armonizzare regole, ridurre barriere amministrative attribuendo, il lettore non si sorprenda, nuove competenze a Bruxelles e soprattutto eliminando le troppe valute sul continente viste solo come costo e rischio da cui coprirsi, non come opportunità per riguadagnare di tanto in tanto competitività. Il mercato unico del 1993 è disegnato infatti come un percorso di integrazione completo solo con la moneta unica. E' ironia della storia la Gran Bretagna paladina del mercato unico che si sfila dall'euro. Un diniego con immediate conseguenze. Un Trattato di Maastricht strabico, attento ai conti pubblici, cieco sui conti con l'estero. Una moneta robotizzata fino al 2013. E allora perché ostinarci con l'euro? Eppure con la lira si riprenderebbe competitività a piacere premendo il pedale della svalutazione. Ma l'Italia non ha un deficit di competitività curabile con il cambio. Da luglio 2012 inanella surplus del conto corrente con l'estero prossimi al 3% del PIL. Come potremmo deprezzarci? Nell'era di Trump e di Brexit i paesi hanno perso remore nello stabilire restrizioni commerciali se le ritengono necessarie e una nostra svalutazione non rimarrebbe impunita. Chi sogna un ritorno alla lira trascura quanto sia cambiata l'economia italiana negli ultimi due decenni in quanto a competitività nonostante la crescita lenta. Per capirlo basta visitare qualche fiera internazionale. O leggere le cifre del commercio estero. Ma anche altri segnali vanno considerati. Una fetta di delocalizzazione sta rientrando perché il mercato del lavoro funziona meglio e in Italia i livelli qualitativi della manifattura sono inarrivabili in paesi low cost. Semmai limita la competitività il fatto che molte imprese non trovino lavoro adeguato, come provano mezzo milione di posti non coperti. Pesano i ritardi infrastrutturali per insufficienti investimenti pubblici e di pigre imprese privatizzate. I fautori delle svalutazioni avevano qualche ragione in epoche di inflazione, non oggi con dinamiche semideflative dei prezzi. Nei paesi emergenti le banche centrali non creano inflazione diversamente dal passato. I prezzi bassi di queste aree in grado di produrre tutto dettano i nostri listini. Numerose imprese hanno processi produttivi distribuiti su tanti paesi dai quali importiamo beni intermedi la cui fattura salirebbe con un deprezzamento. Il mondo delle svalutazioni competitive sta gradualmente svanendo. I nostri discendenti lo conosceranno dai libri come la pirateria sui mari di qualche secolo fa. Per chi poi piange la sovranità perduta Helen Rey replica tre anni fa che nelle politiche monetarie ormai c'è solo un dilemma. Poco importa che si adottino cambi flessibili o fissi, la scelta è tra una moneta autonoma con mercati finanziari chiusi o mobilità dei capitali ma con una politica monetaria che indipendente non sarà mai più soprattutto per paesi di piccola-media dimensione come l'Italia. Semmai il problema è dove finisce la sovranità. L'incompletezza della unione monetaria, senza assicurazione federale sui depositi e con un indefinito prestatore di ultima istanza (soprattutto prima di Draghi) significa evaporazione di sovranità. Magari fosse andata a Francoforte! La prova scandalosa è che la Grecia, dalla crisi del 2011, si trova di fronte non solo la BCE cui ha devoluto la politica monetaria ma il FMI che non c'entra nulla. In ogni caso, nel nuovo contesto di mobilità dei capitali, una svalutazione avrebbe conseguenze nefaste perché rende le attività del paese facile preda di operatori stranieri. Per difenderci, senza un pur incompleto euro, dovremmo chiudere i mercati dei capitali. Una illusione, dato che imprese e banche multinazionali operano ogni giorno attraverso le frontiere ed impedire loro di muovere capitali è impossibile. Meglio sarebbe tassare in modo coordinato internazionalmente. O affrontare in maniera innovativa il nodo del debito pubblico. L'Italia non è il Giappone, che ha un debito pubblico doppio sul Pil pressoché interamente detenuto da giapponesi. Numerosi italiani nascondono risparmi in Svizzera, Lussemburgo, Cayman, cassette di sicurezza, casseforti e materassi. Contro queste pratiche i governi si sono mossi più volte fino all'ultima voluntary disclosure. Ma non basta: le risorse sottratte a fisco e circuito finanziario sono troppe. Canalizzarle verso i titoli pubblici ridurrebbe il costo del finanziamento del debito pubblico aggravato da quasi 200 punti di spread. Basterebbe introdurre titoli di debito pubblico al portatore acquistabili anche per contante. “Cartelle” di questo tipo erano presenti nei romanzi dell'800 da Dostoevskij a Balzac e potevano essere scambiate liberamente. Oggi potremmo reintrodurli, in forma non cartacea, su una piattaforma accessibile dalle banche, usabili per pagare tasse e scambiabili tra titolari di un conto bancario. In quanto anonimi spunterebbero forse tassi inferiori di quelli tedeschi. Il titolo al portatore conterrebbe così una tassa implicita a fronte di flessibilità d'uso e acquisto per contanti. E potrebbe in più competere con le rischiose e opache monete private – ovvero non emesse da banche centrali – come Bitcoin. Sarebbe poi una alternativa ad una seconda moneta interna da affiancare all'euro, proposta da alcune forze politiche. Evasione ed esportazione di capitali illegale provocano un danno fiscale e uno finanziario. Con titoli al portatore si elimina il primo e riduce il secondo.
    Ma questo non basta per aggredire il debito pubblico e vivere felici con l'euro. Bordo di Harvard e James di Princeton ci svelano che il bilancio federale americano impiega circa 140 anni dalla fine del 700, quando nasce il dollaro moneta unica, agli anni 30 del secolo scorso, per raggiungere il peso di oggi. Il bilancio federale Usa nasce come quello Ue. Un analogo percorso potrebbe essere dunque essere seguito in Eurolandia, dove, per esempio, solo la Grecia spende per la difesa quanto gli Usa e Nato chiedono mentre gli altri partners sono sotto. La difesa della Grecia è un pezzo consistente della cintura sud d'Europa cui tutti siamo interessati, un bene pubblico europeo dal quale potrebbe cominciare un cammino di federalizzazione finanziaria della spesa. Pur rimanendo in capo a ciascun paese, la difesa dovrebbe essere coperta con titoli federali – eurobonds- collocati dalla BCE. La Grecia che si impegna di più degli altri e per gli altri non sarebbe penalizzata da tassi d'interesse esorbitanti. Potrebbe tagliare meno welfare fronteggiando meglio nazionalismi e populismi interni. Faremmo così progredire coesione europea, stabilità dei conti pubblici di paesi in difficoltà e simpatia per l'euro.

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