I governi dei paesi che hanno aderito all'Unione Economica e Monetaria (UEM) emettono debito in una moneta che non controllano - come fosse una moneta straniera - così ha sostenuto persuasivamente l'economista Paul de Grauwe (1). Questo significa che non ci sono scorciatoie alla riduzione del debito pubblico: contano le manovre di anno in anno ed il rapporto con i mercati. La seconda ovvia implicazione del far parte di un'unione monetaria è l'incapacità di servirsi di una svalutazione per stimolare, nel breve-medio termine, la crescita economica.
L'Italia ha aderito alla moneta unica nel 1999 e, per quanto questo rappresenti il momento in cui essa rinuncia formalmente alla sovranità monetaria, un lento processo di erosione della sua capacità di “controllare la moneta” – qualsiasi fosse l'obiettivo specifico della politica monetaria - era iniziato molto prima (2). Piuttosto che rappresentare una rottura rispetto al passato l'adozione dell'Euro è il momento in cui l'Italia consolida e massimizza i risultati di un cambiamento di regime avviato almeno due decenni prima e reso inevitabile dalla spinta globale all'apertura dei mercati di beni, servizi e capitali.
Diverse scelte di politica economica caratterizzano questo cambiamento. Ne isolo qui due in particolare perché sono quelle che meglio si collegano alle conseguenze che derivano dalla perdita di sovranità monetaria sopra enunciate. La prima scelta consiste nel divorzio tra il Tesoro e la Banca d'Italia nel 1981 per il quale la banca centrale nazionale non era più obbligata ad acquistare titoli del debito pubblico rimasti invenduti sul mercato primario. La seconda - collegata alla prima e messa in pratica qualche anno più tardi - è stata quella di rinunciare all'uso del tasso di cambio come strumento di politica economica.
Con il divorzio tra il Tesoro e la Banca d'Italia viene meno un' importante fonte di finanziamento del debito pubblico. Questo costringe i governi italiani ad aprire un canale di comunicazione con i mercati - che si stavano via via “ispessendo” - per convincerli della bontà delle proprie decisioni di politica fiscale. La gestione delle finanze pubbliche diviene così più onerosa rispetto al passato, ed ancor più perché i tassi di interesse sul debito rimangono in ogni caso elevati, soffocando qualsiasi velleità di utilizzare il bilancio pubblico per stimolare la crescita economica. Da qui è importante ricordare come la prima ondata di severa austerità in Italia interessi gli ultimi anni Ottanta e i primissimi anni Novanta, ancora prima che il Paese intraprendesse il percorso di Maastricht dal 1992 in poi.
Sono invece la prospettiva dell'adesione all'Euro e poi la sua effettiva introduzione che hanno consentito all'Italia di incassare un notevole dividendo di credibilità: la spesa per interessi è scesa da oltre il 10 percento del PIL solo nel 1995 al 3.8 percento del PIL nel 2016, nonostante lo stock di debito sia invece aumentato. È responsabilità dei governi che si sono succeduti dalla metà degli anni Novanta ad oggi non aver saputo fare buon uso di questi risparmi.
Il quadro macroeconomico successivo alla decisione di mettere in pratica il divorzio tra il Tesoro e la Banca d'Italia spinge anche ad un ripensamento delle politiche di cambio. La percezione che le svalutazioni avessero più costi che benefici comincia a radicarsi in questo periodo proprio perché si riteneva che compromettessero la credibilità internazionale di un paese che sempre di più aveva bisogno dei mercati per finanziare i propri deficit.
L'ultima grande inevitabile svalutazione della Lira è del 1992, resa necessaria dalle ondate speculative che costrinsero l'Italia a sganciarsi dal Sistema Monetario Europeo (SME). Ma questa svalutazione è geneticamente diversa da tutte le precedenti. È figlia della decisione di abolire tutti i controlli sul movimento dei capitali implementata nel 1990 e parte integrante del progetto europeo per il completamento del mercato unico. Questo espose la Lira ad ondate speculative che la “semplice” politica monetaria non era in grado di gestire. L'evento rafforzò la convinzione di alcuni che con mercati dei capitali completamente aperti l'adozione dell'Euro avrebbe protetto l'Italia dalla speculazione oltreché consentirle di accedere al credito a buon mercato forte dell'acquisita credibilità internazionale.
Così è stato. Per quanto manchi il controfattuale è difficile immaginare che l'Italia avrebbe beneficiato degli stessi bassi tassi d'interesse se avesse deciso di rimanere fuori dall'unione monetaria. È più probabile immaginare anzi che i mercati l'avrebbero punita con elevati premi di rischio mentre era venuta già meno la possibilità di monetizzare il debito pubblico. Anche se i governi di turno avessero deciso di invertire la rotta rispetto al resto del mondo consentendo a se stessi un certo appoggio da parte della Banca d'Italia, le esigenze di finanza pubblica avrebbero sovraccaricato la politica monetaria - come nell'ipotesi di dominanza fiscale e nelle sue varianti (3) - facendo perdere comunque all'Italia “il controllo della moneta” e con esso la possibilità di usare la politica monetaria per fini alternativi alla gestione del debito pubblico, quali la stabilità dei prezzi ed una crescita economica stabile.
Va comunque riconosciuto che, per quanto l'Euro abbia concesso un'occasione all'Italia – non sempre opportunamente colta, ci siano delle “brutture” istituzionali e delle contingenze economiche che pesano sul successo del progetto stesso. Tra le prime annovero l'ossessione per i deficit annuali con un target unico per tutti i paesi membri nonostante le diverse posizioni di partenze e le diverse prospettive di lungo termine. Ritengo che la disciplina fiscale concorra al buon funzionamento politico oltreché economico dell'euro zona ma dovrebbe essere diversamente applicata. Avrebbe più senso imporre ai paesi decisioni di finanza pubblica che garantiscano la sostenibilità del loro debito pubblico nel lungo termine piuttosto che vincolare tutti allo stesso modo in ogni singolo anno (4).
Inoltre, la diversa eredità fiscale degli stati membri con paesi fortemente indebitati ed altri meno è tra le sfortunate contingenze economiche che spiegano la resistenza politica a qualsiasi condivisione del rischio a livello europeo. In condizioni di stress finanziario, i capitali sono destinati a fuggire dai paesi più indebitati, aggravando la loro condizione relativa. I mercati sono infatti particolarmente sensibili ai livelli iniziali di debito specie lì dove c'è scarsa stabilità politica e. È compito ora dell'Italia avviare un processo graduale ma certo di abbattimento dell'enorme stock di debito. La Banca Centrale Europea (BCE) ha offerto in questo senso un'enorme opportunità, consentendo attraverso i propri acquisti una riduzione di almeno il 30 per cento della spesa per interessi negli ultimi due anni. In misura sempre più evidente, i mercati si sono però anche mostrati molto sensibili al rispetto da parte di ogni singolo paese delle regole europee. È compito dell'Europa stillare regole più intelligenti così da rendere più intelligenti anche i mercati.
Benedicta Marzinotto è docente di Politica economica all’Università di Udine, Visiting Professor al College of Europe e Visiting Fellow all'Istituto Universitario Europeo
1. de Grauwe, P. (2011), “The governance of a fragile Eurozone”, CEPS Working Document 346, Maggio.
2. Marzinotto, B. (2015), “Embedded Macroeconomic Institutions: Italy's Fiscal U-Turn in the 1990s and Beyond”, in: Journal of Common Market Studies 53/6.
3. Sargent, T. J.; N. Wallace (1981), Some Unpleasant Monetarist Arithmetic, Federal Reserve Bank of Minneapolis Quarterly Review 5, pp. 1-17. Auerbach, A.; Y. Gorodnichenko (2012), Fiscal Multipliers in Recession and Expansion. In: Fiscal Policy After the Financial Crisis, NBER. Bianchi, F.; L. Melosi (2013), Dormant Shocks and Fiscal Virtue, NBER Macroeconomic Annuals 2013.
4. Marzinotto, B. (2015), “Europe's pointless deficit targets?”, Project Syndicate, 3 Giugno.
© Riproduzione riservata