Poco prima di lasciare la Casa Bianca, il presidente Barack Obama ha informato il suo successore riguardo al fatto che la Corea del Nord avrebbe presto rappresentato il problema strategico più grave degli Stati Uniti. Donald Trump ha risposto con la sua solita spavalderia: ha sbraitato, e poi, all’inizio di aprile, dopo aver ceNato e bevuto con il presidente cinese Xi Jinping, ha ammorbidito la linea dura verso il paese, per incoraggiare i Cinesi a frenare il loro ribelle alleato.
Ma la Repubblica Popolare Democratica di Corea (Dprk) sembra essere un passo avanti rispetto a Trump. Infatti, anche con la forte concentrazione di potenza militare statunitense sulla soglia di casa, continua a lanciare missili.
In tutta l’Asia nordorientale, quasi tutti i vicini della Corea del Nord considerano il Paese una provocazione costante e lamentano la carenza di strumenti per affrontare un regime tanto bizzarro. In assenza di opzioni praticabili, per decenni i poteri regionali dell’Asia orientale sono stati privi di una strategia realmente vitale per affrontare le sfide multiple – minaccia nucleare, sottosviluppo economico e violazioni dei diritti umani – poste dalla Dprk.
La Cina e la Russia, i due poteri che hanno sostenuto a lungo la Dprk, richiedono l’intervento della diplomazia, mentre gli Stati Uniti hanno quasi sempre dichiarato la necessità di una linea dura: sanzioni più severe e una posizione militare più rigida. La Corea del Sud (nota anche come Repubblica di Corea o Rok) e il Giappone concordano sul fatto che le sanzioni e una maggiore prontezza militare siano fondamentali per affrontare le sfide poste dalla Dprk, ma, poi, generalmente si ritirano, al pensiero di rendere Seul e Tokyo molto esposte rispetto alla Corea del Nord.
Il presidente della Rok appena eletto, Moon Jae-in, continua a porre l’accento sul ruolo della diplomazia, ed ha espresso il desiderio di incontrare direttamente il leader della Dprk Kim Jong-un. E perfino Trump ha dichiarato di volere incontrare Kim «per un hamburger». Ma la loro disponibilità al dialogo poggia su basi deboli, in quanto né Moon né Trump conoscono cosa, ammesso che ci sia qualcosa, convincerebbe Kim a cambiare il suo comportamento. Non lo sanno nemmeno i commentatori di Project Syndicate; ma, nell’insieme, i loro approfondimenti – in alcuni casi acquisiti da anni di esperienza diplomatica diretta con la Dprk – indicano le possibili prospettive, così come le evidenti problematiche, di una trattativa con Kim.
Il Gioco dello “Scaricabarile”
L’unico processo diplomatico che sembrava offrire la speranza di un modus vivendi con il Nord durante il regime di Kim Jong-il (padre di Kim Jong-un, morto nel 2011) è stato quello dei “Colloqui a Sei”, che hanno riunito Stati Uniti, Giappone, Cina, Russia, Corea del Nord e Corea del Sud. Ma i colloqui sono stati compromessi dalle differenze negli interessi e dai disaccordi negli obiettivi tra i cinque interlocutori della Dprk, che hanno ingaggiato un gioco di scaricabarile, invece di continuare a portare avanti negoziati attenti. L’assenza di un fronte realmente unito ha permesso da tempo al regime nordcoreano di eludere le leggi internazionali e le sanzioni delle Nazioni Unite e di manipolare i cinque Paesi a proprio vantaggio.
Gli Stati Uniti hanno incolpato la Cina di avere abituato male la Dprk giustificando le sue ambizioni nucleari. La Cina rimprovera agli Stati Uniti di aver rifiutato di dialogare con i Nordcoreani riguardo alle due cose che essi vogliono con ostinazione: la cessazione delle annuali esercitazioni militari Usa-Rok ed i negoziati per una conclusione formale della guerra coreana.
Recentemente, la Cina ha accusato gli Stati Uniti di alimentare il livello di allerta sulla penisola coreana, con il dispiegamento del sistema avanzato antimissile Terminal High Altitude Area (Thaad), nonostante i ripetuti avvertimenti della Cina che ciò porterebbe alla compromissione della propria sicurezza aggravando le tensioni bilaterali. Da parte sua, la Russia ammonisce gli Stati Uniti per i suoi tentativi di “intimidazione” nei confronti della Corea del Nord, e per non perseguire la strada diplomatica, e ha dichiarato «inaccettabili» le sanzioni unilaterali statunitensi.
La Rok, a sua volta, accusa la Cina di boicottaggio economico nei confronti dei beni, dei prodotti culturali e dell’industria del turismo della Corea del Sud, dal momento della sua accettazione del sistema Thaad. Christopher R. Hill, ex ambasciatore degli Stati Uniti in Corea del Sud (e uno dei partecipanti ai colloqui a sei), definisce la risposta cinese un «atto di bullismo» per intimidire la Rok a causa della sua difesa dai missili nordcoreani. Ma Lee Jong-wha, ex consulente economico del presidente della Rok Lee Myung-bak, afferma che ci potrebbero essere gravi conseguenze per la Cina se continuasse a minacciare le imprese sudcoreane a seguito del posizionamento del Thaad. La Corea del Sud, dice Lee, sta persino «considerando di portare a giudizio le sanzioni cinesi davanti all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc), e le autorità stanno valutando se la Cina abbia violato le clausole pertinenti l’accordo bilaterale di libero scambio tra i due Paesi».
Corea del Sud indispettita
Ma i sudcoreani sono indispettiti anche contro l’amministrazione Trump, sia per l’esclusione del proprio governo dalle recenti decisioni di inasprire le tensioni militari ai loro confini, sia per il largo giro compiuto dalla portaerei statunitense “Uss Carl Vinson”, dopo le affermazioni rilasciate in aprile da Trump riguardo al fatto che essa si stava dirigendo verso la penisola. I Sudcoreani si sono irritati con Trump anche per la richiesta al loro governo del pagamento di 1 miliardo di dollari per il sistema Thaad, in violazione aperta dei termini concordati tra i due Paesi. Yoon Young-kwan, ex ministro degli Esteri della Rok, è stato inequivocabile: se gli Stati Uniti rinnovassero tali richieste, Moon «sarebbe costretto a rifiutare», afferma Yoon. «Altrimenti, si troverebbe a dovere affrontare una serie di sfide nazionali sia da sinistra che da destra».
La Corea del Sud ed il Giappone si sono un poco ravvicinati tra loro, a causa della minaccia comune rappresentata dalla Dprk, e anche per l’incertezza che oggi avvertono riguardo all’alleanza strategica dei propri Paesi con gli Stati Uniti guidati da Trump. E mentre i vicini della Corea Nord e gli Stati Uniti battibeccano, la capacità nucleare del regime Kim e il suo pericoloso potenziale di cyber-armamenti – forse recentemente in mostra con l’attacco globale che ha preso in “ostaggio” i dati di tutto il mondo – crescono in portata e pericolosità.
Una Storia Ambiziosa
Un motivo per cui non è stata formulata una politica coerente verso la Dprk è che nessuna delle cinque potenze che interagiscono con essa ha una chiara risposta alla domanda fondamentale: cosa vuole il regime di Kim? Per rispondere a questa domanda, o almeno per ricercare nella giusta direzione, è necessario ripercorrere non solo le origini del programma nucleare della Dprk, ma anche la geopolitica della penisola coreana prima della fondazione del Paese.
Durante la seconda guerra mondiale, il Giappone ha gettato il seme dell’ambizione nucleare nella penisola coreana con l’istituzione di un programma nucleare segreto nel nord della Corea, che all’epoca era una sua colonia. Tali impianti erano stati smantellati alla fine della guerra, ma una serie di umiliazioni da parte delle potenze regionali, tra cui gli alleati della Dprk, potrebbero aver acceso il desiderio di possedere un arsenale nucleare.
Kim Il-sung, il padre fondatore della Dprk (e il nonno di Kim Jong-un), si è sentito ripetutamente mortificato da Joseph Stalin e Mao Zedong, entrambi infatti consideravano la Corea del Nord una nullità nel peggiore dei casi e una pedina nel migliore. Ovviamente, i cinesi sono andati in soccorso di Kim durante la Guerra di Corea, quando è fallita la sua invasione del Sud, e la Dprk non sarebbe sopravvissuta senza gli aiuti e i sacrifici cinesi durante e dopo la guerra.
Ma i Nordcoreani hanno quasi sempre considerato l’ingresso della Cina nella guerra come un atto di interesse e non di generosità. Quindi, essi portano fino alle estreme conseguenze l’ideologia ufficiale, conosciuta come “juche” (autosufficienza): incapaci di affidarsi a qualcun altro, considerano le armi nucleari essenziali per la loro sicurezza e sopravvivenza.
Pertanto, le ambizioni nucleari del regime di Kim risalgono all’istituzione della Dprk come stato sovrano. Nel 1952 è stato creato l’Istituto per la Ricerca Energetica Atomica; 12 anni dopo, esso è stato trasferito al Centro di Ricerca Nucleare di Yongbyon. Il centro di Yongbyon, che comprendeva un reattore sperimentale sovietico e le strutture connesse, è stato reso possibile grazie alla sostanziale assistenza del Cremlino, nell’ambito di un accordo bilaterale del 1959 sulla cooperazione in materia di energia atomica.
La volontà della Dprk di dotarsi di energia nucleare armata è probabilmente sorta negli anni sessanta, quando, dopo la prima prova atomica della Cina, Kim Il-sung chiese a Mao di aiutarlo a istituire un programma di armi nucleari. Anche se oggi molti incolpano la Cina per aver permesso il continuo sviluppo delle armi nucleari da parte della Dprk, all’epoca Mao aveva rifiutato tale richiesta. Infatti, è probabilmente l’Unione Sovietica ad avere la maggiore responsabilità del lancio del programma.
Il regime di Kim probabilmente ha iniziato a metà degli anni settanta a definire un percorso indipendente per lo sviluppo sia del nucleare civile sia di quello militare. Nel 1993, la Dprk ha lanciato con successo nel Mare del Giappone un missile con una portata tale da potere probabilmente colpire la maggior parte delle isole giapponesi. Come sottolinea Yuriko Koike, ex ministro della Difesa giapponese e consigliere di sicurezza nazionale, attualmente governatore di Tokyo, a partire dal 2006, la Dprk è stata in grado di lanciare missili balistici intercontinentali con un raggio di circa 6.000 chilometri (3.700 miglia). Inoltre, la Corea del Nord potrebbe apportare ulteriori miglioramenti in grado di estendere la portata dei suoi Icbm a «più di 10.000 chilometri, dimostrando un costante progresso nelle prestazioni».
Koike ha sicuramente ragione. I sistemi di lancio multipli, come le piattaforme marine e i lanciatori mobili, nonché il recente sviluppo di motori a combustibile solido, apparentemente riuscito, attestano la continua evoluzione della capacità e della potenza distruttiva della tecnologia dei missili balistici del Nord.
Una Questione di Percezione
Insomma, quanto è pericolosa la Dprk?
L’ex ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer, non è ottimista. Fischer afferma che «se la scala-colore oggi utilizzata per i livelli di minaccia terroristica venisse applicata alla crisi sulla penisola coreana, mostrerebbe un passaggio dall’arancione al rosso».
Ma, sebbene i pericoli posti dalle ambizioni nucleari della Corea del Nord siano innegabili, la portata della minaccia ha molto a che fare con la prospettiva di chi la osserva. A partire dalla fine del ventesimo secolo, molte potenze minori – tra cui Pakistan, India, Israele, Libia e Iran – hanno cercato (o ancora cercano) di entrare nel “club nucleare”. E sebbene i rapporti indo-pakistani siano stati talvolta tutt’altro che pacifici, il mondo non considera i programmi nucleari dei due Paesi dell’Asia meridionale minacce alla sicurezza di prioritaria importanza. (La presenza su larga scala di gruppi terroristici in Pakistan è, però, fonte di grave preoccupazione riguardo al controllo del governo dell’arsenale nucleare del Paese). Ma con la Libia e l’Iran, il clima generale di diffidenza e sospetto hanno rafforzato l’allarme internazionale verso nuove minacce nucleari.
Lo stesso tipo di paure e ostilità storiche, perlopiù forgiate nell’ambiente ostile della Guerra Fredda, oggi si ripercuote negativamente sulle percezioni contemporanee della minaccia rappresentata dalla Corea del Nord. Una delle ragioni di questo è che la Dprk, essendo stata bersaglio di minacce di ricorso all’uso delle armi nucleari, ha interiorizzato tali tattiche molto prima di addestrare i suoi iniziali scienziati nucleari.
Come racconta una storia recente e autorevole delle due Coree, durante la guerra coreana, il generale Douglas MacArthur ha chiesto l’autorizzazione ad utilizzare 26 bombe atomiche su specifici obiettivi nordcoreani. Il presidente Dwight Eisenhower, nelle prime settimane della sua presidenza, «ha cominciato a fare intendere che gli Stati Uniti avrebbero Usato la bomba atomica se fosse continuata una situazione di stallo nei negoziati volti a concludere un armistizio che ponesse fine alla guerra». Considerata questa disponibilità a considerare l’uso tattico delle armi nucleari contro la Dprk, non c’è da meravigliarsi se, sin dall’inizio, all’interno del regime di Kim sia maturata la convinzione che il possesso di tali armi rappresenti, se non una garanzia di sicurezza, una polizza assicurativa.
La Carta Cinese
Questa convinzione si è intensificata con il regime attuale – al punto che la negoziazione di una possibile fine del programma nucleare da parte della Dprk può rivelarsi ancora più difficile di quanto molti immaginano. La maggior parte dei collaboratori di Project Syndicate, che negli ultimi anni hanno scritto sulla Corea del Nord, sembrano concordare sul fatto che la Cina sia un elemento cruciale perché si riesca a contenere le ambizioni nucleari della Corea del Nord.
Yoon, per esempio, suggerisce che la denuclearizzazione della Dprk dovrebbe cominciare con la riduzione delle «preoccupazioni geostrategiche della Cina sul futuro della penisola coreana». Inoltre, afferma che «se il problema della Corea del Nord non verrà separato dalla concorrenza strategica tra Stati Uniti e Cina, gli sforzi diplomatici continueranno a fallire».
Dato questo, Yoon sostiene cheTrump dovrebbe «promettere alla Cina che la sua amministrazione non cercherà di favorire un cambio di regime in Corea del Nord, ed offrirà invece garanzie di sicurezza nel caso in cui essa si denuclearizzasse». In alternativa, «egli potrebbe offrire il ritiro del nuovo sistema antimissilistico americano Thaad (Terminal High Altitude Area Defense) – a cui la Cina si è opposta – dalla Corea del Sud non appena la Corea del Nord eliminasse il proprio programma nucleare».
Se la Cina detenesse realmente la chiave per la risoluzione del problema rappresentato dalla Corea del Nord, l’approccio di Yoon sarebbe quello giusto. Ma a mio avviso, la Cina non ha né la volontà né la capacità di controllare la Corea del Nord. La Dprk semplicemente non permetterà di farsi togliere le armi nucleari dalle mani.
Prima dell’ascesa del giovane Kim, la Dprk probabilmente avrebbe rinunciato alle sue ambizioni nucleari per un giusto prezzo e il riconoscimento internazionale di stato legittimo. Con l’amministrazione Clinton, gli Usa erano arrivati molto vicino a facilitare la fine del programma nucleare e la guerra coreana, perseguendo la normalizzazione delle relazioni con il Paese.
Ma l’attuale leader della Dprk è diverso. La sua sopravvivenza politica dipende dal potere nucleare del suo Paese. L’effetto talismano del nome Kim si è notevolmente indebolito all’interno del Paese e i nuovi ricchi si sentono in diritto di avere più soldi e uno stile di vita migliore. Essi possono comprare più o meno tutto, ad eccezione delle armi nucleari. Quelle appartengono a Kim e sono quindi la sua unica fonte di legittimità nazionale.
Il Gambero e le Balene
Geograficamente e storicamente schiacciata tra grandi potenze, la penisola viene spesso paragonata dai Coreani del Sud, come Lee, a «un gambero tra le balene». E se i Sudcoreani continuano a considerare il loro Paese in questo modo, i Nordcoreani lo fanno ancora di più. Come mette in rilievo Carl Bildt, ex primo ministro svedese, «negli anni cinquanta, l’economia del Nord era migliore di quella del Sud; oggi, essa è 40-80 volte più piccola». Infatti, gli indici della produttività economica e dello sviluppo umano della Dprk sono stati più alti di quelli della Rok fino al periodo compreso tra la fine degli anni sessanta e gli inizi dei settanta.
Oggi, la Corea del Sud non solo vanta una delle economie più avanzate del mondo; ma è anche «uno dei più importanti Paesi del mondo per energia nucleare» con crescente esportazione di reattori per uso civile. Ed il successo della Rok, soprattutto nel settore nucleare, ferisce profondamente l’orgoglio della leadership della Dprk. Piuttosto che creare un’apertura ai negoziati – una possibilità a volte perseguita dagli Stati Uniti ed altri – gli insuccessi economici della Corea del Nord hanno portato il Paese a puntare tutto sulle armi nucleari, mettendo la sicurezza al di sopra di qualsiasi altro imperativo politico.
Non sorprende che l’esito di tutto questo sia l’assenza di una chiara opzione positiva per affrontare l’arsenale nucleare della Corea del Nord. Ma questo non significa che non esista alcuna possibilità potenziale. Richard N. Haass, presidente del Council on Foreign Relations, elenca quattro possibili scelte politiche: accettare lo status quo e rafforzare la deterrenza tradizionale, mentre la Dprk sviluppa ulteriormente le proprie capacità nucleari; l’uso della forza militare, come attacchi chirurgici contro armi e strutture nucleari; l’attuazione di un cambio di regime; oppure la ricerca di soluzioni diplomatiche. Haass, come Hill, Yoon e Fischer (e molti altri), conclude che la diplomazia è l’unica via da seguire.
Ma la diplomazia richiede un “dare e avere”, e in questo momento, la Corea del Sud guidata dal liberale Moon è l’unico Paese disponibile a dare. È molto probabile che vengano ripresi gli aiuti umanitari, vietati dalle sanzioni unilaterali imposte dalla Corea del Sud contro la Dprk, durante la presidenza di Park Geun-hye, recentemente messa sotto impeachment. Inoltre, Moon ha promesso di riaprire il Kaesong Industrial Complex, una joint venture di tipo economico tra nord e sud, se e quando il regime di Kim ritornasse al tavolo delle trattative (senza un preciso mandato riguardo a ciò che deve dire o fare).
Metallo pesante
Gli Americani sono i meno disposti ad essere flessibili su ciò che la Corea del Nord considera la minaccia più grave da affrontare: le due annuali esercitazioni militari congiunte, della durata di due mesi, della Rok e degli Usa. Negli ultimi anni, più di 300.000 soldati sudcoreani e statunitensi sono stati concentrati all’interno ed intorno alla Penisola Coreana, insieme a centinaia di navi da guerra e aerei da combattimento, comunicazioni avanzate e attività di intelligence. Quest’anno, “l’armata”, di cui Trump si vanta, potrebbe partecipare alle esercitazioni annuali, compreso il gruppo di attacco navale guidato dalla portaerei “USS Carl Vinson”. Inoltre il sommergibile “USS Michigan” a propulsione nucleare, uno dei più grandi al mondo, che trasporta circa 150 missili Tomahawk, è ancorato in Corea del Sud in testa al gruppo Vinson.
Oltre alle numerose navi da guerra della Rok, due caccia torpedinieri giapponesi hanno condotto esercitazioni con l’ “USS Carl Vinson” in viaggio verso la Corea. Era la quarta volta quest’anno che la marina giapponese compiva esercitazioni militari insieme al gruppo della Vinson, cosa che certamente crea nervosismo in Corea del Nord e Cina (ed anche in Corea del Sud), dato che questi Paesi condannano l’intenzione dell’attuale governo giapponese di rimilitarizzare il Giappone. Inoltre, le voci riguardo al fatto che la forza speciale SEAL Team 6, responsabile dell’uccisione di Osama bin Laden, abbia partecipato alle esercitazioni congiunte e si sia esercitata per “eliminare” Kim si sono diffuse rapidamente sui media conservatori negli Stati Uniti e in Gran Bretagna.
Per Haass, Hill e altri, queste esercitazioni militari congiunte devono rimare fuori da tutti i tavoli di negoziato con il Nord. «Quanto può essere efficace un’alleanza militare senza contatti frequenti, integrazione continua e preparazione aggiornata?», si domanda Hill. Ma se la dimostrazione schiacciante della forza dei giochi di guerra serve a provocare la Corea del Nord, piuttosto che a dissuaderla, forse gli Stati Uniti dovrebbero considerare la proposta di un loro ridimensionamento come misura di rafforzamento della fiducia. La riduzione della presenza militare giapponese attorno alla penisola – almeno fino a quando non diventino evidenti una linea di stabilità ed un percorso verso la costruzione della fiducia reciproca – rappresenta un’altra opportunità auspicabile.
Chiudere il Deficit di Sicurezza dell’Asia
Minghao Zhao, uno stratega cinese presso il Charhar Institute di Pechino, ritiene che la questione sia più ampia, descrivendo la “sfiducia strategica” come un problema fondamentale dell’Asia nordorientale. Zhao osserva che «la Cina e la Russia temono che un’alleanza tra Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud possa rivelarsi equivalente a una mini Nato», e rilanciare nella regione «blocchi di sicurezza» simili a quelli della Guerra Fredda. Egli considera il dispiegamento del Thaad in Corea del Sud, con il Giappone pronto a seguire l’esempio, come il paradigma di questa sfida. Altrettanto preoccupante, in questa prospettiva, è il General Security of Military Information Agreement (Gsomia), siglato nel 2016 dalla Corea del Sud e dal Giappone, un accordo che facilita lo scambio diretto di informazioni sulla Corea del Nord.
Ma la verità è che nessuno dovrebbe realmente temere la creazione di una mini-Nato in Asia orientale, data la profondità e la forza della sfiducia, anche tra i presunti alleati. La presidenza Trump non farà nulla per minimizzare questo. La Corea del Sud ed il Giappone continuano a polemizzare riguardo all’accordo sulle “donne conforto” del 2015, con l’elezione di Moon che forse rilancia la questione – e quindi il rancore bilaterale che lo sfruttamento sessuale delle donne da parte dell’Esercito Giapponese Imperiale ha alimentato fin da quando la Corea del Sud è diventata una vera democrazia negli anni ottanta. Per il Giappone e la Corea del Sud, il Gsomia era semplicemente un espediente politico, inteso sia a difendersi contro la Dprk, sia a soddisfare il loro comune alleato, gli Stati Uniti, che, con Obama, avevano spinto i due nemici storici a riconciliarsi. Se la Corea del Nord abbassasse la temperatura del suo programma nucleare, le ragioni per il Gsomia si indebolirebbero.
Il comportamento incoerente, contraddittorio e impulsivo di Trump potrebbe essere il principale ostacolo alla costruzione di rapporti di fiducia in Asia nordorientale. Se gli Stati Uniti continuassero ad apparire un partner o un interlocutore inaffidabile, sia la Corea del Sud che il Giappone potrebbero iniziare a cercare altre opzioni per sostenere la loro sicurezza, compreso il raggiungimento di accordi con la Cina e la Russia per colmare il vuoto strategico che Trump sembra determinato a creare in Asia orientale.
Per contrastare tutto questo, Anne-Marie Slaughter and Mira Rapp-Hooper del Center for a New American Security offrono una proposta audace: una misura di auto-aiuto che i Paesi dell’Asia orientale possono adottare per proteggersi dalle bizzarrie di una Casa Bianca a guida Trump. In particolare, Slaughter e Rapp-Hooper sostengono che per questi Paesi sia necessaria una «rete di sicurezza regionale che passi da uno schema a stella con al centro gli Usa, a uno a maglia, in cui essi siano connessi tra loro, come lo sono con gli Stati Uniti».
Ciò ha senso, visto che l’alternativa sarebbe probabilmente un ampliamento del deficit di fiducia – e quindi un crescente rischio di sicurezza – nella regione. La dipendenza dall’attuale amministrazione statunitense per un intervento efficace è improbabile che dia dei frutti. Trump non ha una strategia per l’Asia, e la sua amministrazione ha troppi posti vacanti per attuarne una. Se le divisioni della regione persistessero, i gamberi potrebbero sfuggire alle balene.
Katharine H.S. Moon è Presidente di Korea Studies e Senior Fellow presso il Center for East Asia Policy Studies presso la Brookings Institution.
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