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Dossier Perché è meglio stare nell’euro

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    Dossier | N. 25 articoli#Eurodibattito

    Perché è meglio stare nell’euro

    Le critiche più serie all’unione monetaria europea sono basate sul fatto che non ha alcune delle caratteristiche fondamentali delle altre unioni monetarie (esistenti finora solo all’interno di stati nazionali). Si fa notare che l’unione monetaria europea non ha un bilancio che possa permettere una politica anti-ciclica per l’insieme dell’Unione e che la sua banca centrale non è obbligata a comprare i titoli di Stato degli stati membri per evitare una loro eventuale perdita di accesso al mercato. Questi due punti hanno una certa validità, anche se molto spesso la portata di questi strumenti viene esagerata e si sorvola sulle difficoltà del loro utilizzo.

    La realtà è che i Paesi membri dell’eurozona sono Stati nazionali con storie, culture e preferenze di politica economica molto differenti e, soprattutto, sono entrati nell’Unione monetaria con “bagagli” diversi e, a volte, molto pesanti (soprattutto per quanto riguarda le finanze pubbliche e il loro funzionamento istituzionale e economico). Sappiamo tutti che l’eurozona non è una zona monetaria ottimale àla Mundell.

    Le differenze e le diffidenze tra i Paesi sono l’elemento che impedirebbe di usare bene i due strumenti citati anche se esistessero. Nell’eurozona abbiamo avuto una recessione nel 2009, ma nel 2010 quasi tutte le economie sono “rimbalzate” abbastanza bene. Se l’eurozona avesse avuto un suo bilancio, sarebbe stato possibile lanciare un piano di sostegno anticiclico della sua economia che avesse un effetto anticiclico nel 2009? Da allora, abbiamo soprattutto una crescita molto insoddisfacente in alcuni Paesi. Sarebbe possibile immaginare oggi un programma di sostegno della crescita di quattro o cinque Paesi finanziato da tutti e 19? Nelle discussioni si parla spesso della necessità di far fronte a shock asimmetrici.

    Ma la bassa crescita di un certo numero di Paesi dell’eurozona, tra i quali il nostro, è dovuta a uno shock asimmetrico? C’è sicuramente un problema di bassa crescita dell’insieme dell’eurozona, ma il problema sembra più strutturale che ciclico.

    La Bce sta oggi comprando titoli di stato dei vari Paesi dell’eurozona. Ma lo fa per ragioni di politica monetaria e lo fa nelle proporzioni di ogni Paese nel suo capitale sociale. Sarebbe stato immaginabile che nel maggio del 2010 la Bce avesse comprato (in misura ancora più massiccia di quanto abbia effettivamente fatto) titoli di stato greci per permettere a quel Paese di non perdere l’accesso al mercato?

    La risposta che do alle domande che ho posto è negativa. I limiti dell’unione monetaria che si stava creando erano ben chiari ai negoziatori italiani che negli anni 90 hanno contribuito a costruire e definire il progetto di unione monetaria. Certi elementi erano immaginabili solo all’interno di un’unione politica dalla quale eravamo molto lontani. Eppure i nostri negoziatori (come quelli francesi, belgi, spagnoli e altri) hanno scelto entusiasticamente di aderire al progetto (in Italia ci sono state alcune voci contrarie, ma molto rare). Questo era dovuto al fatto che la vita con una moneta nazionale costantemente sotto tensione non era piacevole, che la Bundesbank determinava di fatto la politica monetaria europea e al fatto che il ciclo svalutazione/inflazione bloccava ogni speranza di spostamento della nostra struttura industriale verso produzioni di più alto contenuto tecnologico, meno esposte alla concorrenza dei paesi emergenti. Per di più, senza l’ingresso nell’unione monetaria (nonostante la nostra moneta e la nostra banca centrale nazionale) stavamo andando verso un default delle nostre finanze pubbliche. Il tasso di interesse medio sul nostro debito pubblico nel 1996 era vicino al 10% (9,8%), con un tasso di inflazione di poco superiore al 4% e la massa degli interessi pagati era pari a circa l’11% del nostro Pil (un quinto circa della nostra spesa pubblica).

    La scelta giusta
    Sono convinto che la scelta fatta negli anni 90 sia stata giusta. Forse è stata anche aiutata dalla speranza di ottenere in seguito quello che mancava. E in effetti, la crisi ha portato a molti cambiamenti istituzionali. Chi avrebbe mai immaginato dieci anni fa che avremmo avuto un embrione di Fondo monetario europeo e che avremmo avuto un sistema comune di supervisione bancaria? Si parla anche molto di altri rafforzamenti futuri. Si va da quello che è stato già previsto in documenti ufficiali (”Rapporto dei cinque presidenti”) e da quello che è stato già parzialmente proposto dalla Commissione europea fino a proposte molto più ambiziose. L’elezione di Emmanuel Macron ha ridato speranza a molti.

    Ma oggi siamo in una situazione oggettivamente più difficile. Non solo le differenze culturali e politiche tra Paesi non sono diminuite, ma è diminuita la fiducia reciproca. Le promesse di effettuare le necessarie riforme formulate da tanti Paesi sono state rispettate in maniera molto parziale. Il nostro Paese era uno di quelli più convinti della necessità di fare le tante riforme di cui avevamo bisogno non appena fossimo entrati nell’Unione monetaria.

    Giustamente Emmanuel Macron lega ogni richiesta di progresso nella dimensione istituzionale dell’eurozona alla dimostrazione concreta della capacità del suo Paese di fare le necessarie riforme. Spero che si riesca a fare dei passi avanti, ma in queste condizioni non vedo come si possa arrivare a un bilancio dell’eurozona comunque finanziato e sono sicuro che non vi sarà alcuna modifica dello statuto della Bce che la obblighi a comprare titoli di stato quando questo non sia giustificato da considerazioni di politica monetaria (penso che sarebbe un errore introdurre un obbligo di questo tipo anche se vi fosse una costellazione politica che lo permettesse).

    La differenza rispetto agli anni 90 è quindi che oggi, non c’è nemmeno la speranza di grandi modifiche istituzionali future e che quindi l’unione monetaria che è di fronte a noi non cambierà molto. Penso si vedranno passi avanti nel completamento dell’unione bancaria e in quella dei mercati dei capitali e spero che si creino dei meccanismi che obblighino un po’ di più anche i Paesi con avanzi di bilancia dei pagamenti ad aggiustare le loro politiche. Ma di più non vedremo.

    Che fare in questa situazione? Penso che la risposta da dare sia la stessa data negli anni 90.

    Dobbiamo chiedere tanti miglioramenti ragionevoli del funzionamento dell’unione monetaria, ma per il nostro Paese un’unione monetaria incompleta è sempre preferibile al ritorno a una moneta nazionale. Questo chiaramente indebolisce la nostra posizione negoziale, perché non possiamo minacciare di “andarcene via”. Le ragioni per le quali ci conviene rimanere nell’euro sono state spiegate in tanti altri contributi a questo dibattito e sono condivise dalla maggioranza degli analisti.

    Ricordo solo che le persone che sentirebbero direttamente gli effetti del passaggio a una nuova moneta sarebbero soprattutto gli italiani in viaggio all’estero. Scoprirebbero di essere più poveri nella misura esatta del suo deprezzamento.

    Fabio Colasanti ha lavorato come economista alla Commissione Ue negli anni dello Sme prima e della creazione dell’euro poi. Quindi Direttore Generale prima alle Imprese e poi alla Società dell’informazione.

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