L’identità sociale. La fatica. Il percorso delle aspirazioni. La forma organizzativa dell’espressione personale. La principale porta di accesso all’indipendenza economica. Troppo, troppo spesso chiusa, in Italia. Insomma: il lavoro. Il punto di incontro tra la speranza e la paura del futuro. Sul lavoro del futuro, si addensa una nebbia che c’è bisogno di diradare. Perché l’incertezza in materia è paralizzante. Quanti vecchi lavori sono a rischio?
Quanti mestieri nati per servire alla raffica di novità avviate dall’elettronica sopravviveranno a loro volta alla spasmodica velocità dell’innovazione digitale? Come si impara a immaginare e creare il lavoro del futuro? Domande difficili. Anche perché si arriva ad affrontare queste questioni lungimiranti con il fiato corto. Il decennio iniziato nel 2007, segnato dalla crisi finanziaria e dalla spettacolare accelerazione digitale, si è tradotto in un’enorme fatica congiunturale e in una fortissima pressione strutturale, finendo col mettere in discussione convinzioni che sembravano intoccabili, almeno in Occidente.
Un dubbio, inconcepibile dal Dopoguerra, si è fatto strada ormai da qualche anno e, a giudicare da un rapporto di McKinsey, è destinato a sciogliersi in una risposta affermativa: i giovani staranno peggio dei loro genitori. E in Italia il fenomeno è particolarmente chiaro. L’ascensore sociale alimentato dal lavoro sembra guasto. Ma si può aggiustare?
Tra le molte questioni aperte in questo problema tanto complesso, l’interpretazione delle opportunità offerte dalla tecnologia è parte essenziale della risposta. Non l’unica. E non univoca. Crea posti di lavoro o li distrugge? Entrambe le risposte sono plausibili. Perché il salto innovativo è enorme: e anche se internet, fissa e mobile, ha già generato cambiamenti dirompenti in una quantità di settori industriali, dall’editoria a commercio, dal turismo alle banche, la prossima ondata innovativa guidata dall’intelligenza artificiale e la robotica sembra destinata a produrre conseguenze ancora più drastiche. E ambigue. Da un lato, la Commissione Europea fonda la sua policy sulla convinzione che il miglioramento nelle infrastrutture digitali è motivo di crescita: la modernizzazione delle connessioni è un gigantesco investimento che però produrrà quasi mille miliardi di euro di Pil in più e 1,3 milioni di posti di lavoro entro il 2025. Dall’altro lato, però, non manca chi vede proprio nelle tecnologie digitali una causa di distruzione di posti di lavoro: una preoccupazione alimentata per esempio da una ricerca di notorietà superiore alla sua ambizione analitica condotta da Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, di Oxford, che annunciava nel 2013 la probabile scomparsa del 47% dei posti di lavoro americani nei prossimi dieci o venti anni.
Ma il dilemma è molto più complesso. Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, dell’Mit, hanno preso in considerazione il grande disaccoppiamento tra occupazione e crescita osservato nei primi quindici anni del terzo millennio e lo hanno collegato alla tecnologia suggerendo di concentrare l’attenzione non tanto sulla quantità di lavoro ma sulla sua trasformazione, di portata simile a quella sperimentata nel corso delle rivoluzioni del vapore e dell’elettricità.
Di certo, esistono periodi nei quali la velocità con la quale si trovano strumenti per risparmiare lavoro è superiore alla capacità di trovare nuovi modi per usare il lavoro, come osservava John Maynard Keynes. Il grande economista parlava di “disoccupazione tecnologica” nel suo breve saggio del 1933 “Economic possibilities for our grandchildren (1930)”, dedicato peraltro alle generazioni che sarebbero vissute cent’anni dopo di lui, e dunque proprio ai giovani di oggi. Keynes era convinto che la “disoccupazione tecnologica” della sua epoca fosse un fenomeno temporaneo e che il livello di vita delle persone che sarebbero vissute cent’anni dopo di lui sarebbe stato da quattro a otto volte superiore a quello dei suoi anni Trenta. Proprio alle soglie del periodo cui Keynes ha dedicato quel saggio, il dibattito torna alla questione della “disoccupazione tecnologica”. E vale la pena di ricordare che, per Keynes, le nazioni che subiscono una distruzione superiore alla creazione di posti di lavoro sono quelle che non sono all’avanguardia del progresso tecnologico.
“«Soffriamo per un attacco di pessimismo economico. (…) Abbiamo conosciuto un progresso tecnologico più rapido negli ultimi dieci anni che in tutta la storia precedente (…). La rapidità del cambiamento tecnico produce problemi difficili da risolvere. I Paesi che soffrono di più sono quelli che non sono all’avanguardia del progresso tecnico. Siamo colpiti da un nuovo malessere (…): la disoccupazione tecnologica. Una forma di disoccupazione causata dal fatto che scopriamo nuovi modi per risparmiare lavoro a una velocità superiore di quella alla quale scopriamo nuovi modi per impiegare il lavoro. Ma è soltanto un disallineamento temporaneo»”
John M. Keynes, Possibilità economiche per i nostri nipoti, 1930
A dieci anni dalla crisi
L’Italia è costretta a riflettere su questo punto. A dieci anni dall’inizio della crisi finanziaria, la disoccupazione in media nei Paesi Ocse è tornata ai livelli precedenti, ma in alcune economie resta sensibilmente peggiore: e tra queste economie c’è anche quella italiana. L’Italia, peraltro, come registra lo “scoreboard” dell’agenda digitale europea, resta tra i Paesi meno avanzati in termini di ricorso al digitale nell’innovazione dei processi amministrativi e imprenditoriali, anche per l’arretratezza della disponibilità di infrastrutture oltre che per l’immaturità culturale e l’analfabetismo funzionale che la pervade. Non stupisce, quindi, che il dibattito sulla possibile scomparsa di posti di lavoro a causa della prossima grande ondata del progresso tecnologico in Italia rischi di apparire meno “urgente piano strategico” che “interessante argomento di conversazione”. Ma il punto è che solo chi coltiva una interpretazione strategica delle opportunità offerte dalla tecnologia può trasformarle in crescita dell’occupazione. Per gli altri, la questione resta astrusa e procrastinabile.
All’Ocse, Stefano Scarpetta, direttore del dipartimento che fa ricerca su occupazione, lavoro e affari sociali, sta sviluppando una strategia per l’occupazione. La sua ricerca vuole eliminare ogni determinismo tecnologico dall’analisi. Non è la tecnologia a causare il miglioramento o il peggioramento dell’occupazione. Alcuni lavori, forse il 10%, possono effettivamente essere destinati a venire sostituiti da macchine, ma la grande maggioranza dei lavori tenderà a trasformarsi. E gli effetti sociali di questa trasformazione saranno diversi nelle diverse economie, in base alle diverse policy che le guideranno. Osservando i fatti, il gruppo di Scarpetta indica tre grandi direttrici per le policy efficaci: tener conto della quantità ma anche della qualità dei posti di lavoro; mantenere l’inclusività del mercato del lavoro; sviluppare adattabilità e resilienza nel mercato del lavoro.
Effetto «resilienza»
La parola chiave è “resilienza”. Se una società punta tutto sulla resistenza al cambiamento diventa fragile, secondo Nassim Taleb, esponendosi al Cigno Nero che prima o poi la mette in crisi. Del resto, mettendo in fila le priorità: «La perdita di posti di lavoro in Italia non è stata certo causata dalla tecnologia ma dalla mancanza di innovazione tecnologica», dice il segretario generale della Fim-Cisl, Marco Bentivogli.
In realtà, una società deve sviluppare una consapevole abilità ad affrontare gli shock. L’economista ed ex ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, con Anna Rita Manca e Peter Benczur, ne scrive in un paper per la Commissione Europea (“Building a Scientific Narrative Towards a More Resilient EU Society”). Di fatto, osservano gli autori, una reazione di fronte agli shock è quella del semplice adattamento: ma questo funziona solo quando gli shock sono di portata limitata o avvengono di rado. Non è il caso del mondo attuale, nel quale si devono invece affrontare shock ripetuti e profondi. In queste condizioni la resilienza non emerge dall’adattamento ma dall’anticipazione: ed è chiaro che un’economia sviluppa la capacità di anticipare i futuri shock puntando sull’innovazione. «In queste condizioni un’economia che non innova perde occupazione», dice Giovannini: «Quando c’è una successione di shock lunga e profonda, l’adattabilità al cambiamento riesce soltanto a ritardare la perdita di posti di lavoro. La resilienza richiede una risposta radicalmente trasformativa. Innovare significa trovarsi anni avanti rispetto ai concorrenti che cercano soltanto di adattarsi. Certo può capitare che innovando ci si sbagli e si esca dal mercato. Ma è più probabile che questo avvenga a chi non innova».
Ma la tensione innovativa tende anche a selezionare chi è capace di farlo e chi non sa come farlo. Il che significa che si rischia la polarizzazione, dice Scarpetta, cioè la crescita della distanza tra chi ce la fa e chi resta indietro.
Il tema del futuro del lavoro è dunque essenzialmente il tema della comprensione delle conseguenze della grande trasformazione attuale. Il Sole 24 Ore cerca chi dimostri di comprendere questa trasformazione. E dedica a questa ricerca una serie di articoli che comincia qui. Nelle prossime tappe, si cercherà di comprendere in che senso l’intelligenza artificiale può trasformare il lavoro, in che modo le relazioni sociali che si sviluppano in rete influenzano il successo delle aziende e dei professionisti e come evolvono i compiti di chi lavora nelle fabbriche della nuova automazione.
Ma sarà solo l’inizio di un viaggio nel quale ogni passaggio va preso come una preparazione del successivo. Perché il futuro non si prevede: si costruisce.
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