Checco Zalone, la sua ossessione tutta italiana per il posto fisso, e la biologa utopista Valeria, che lavora nell'arcipelago delle Svalbard, nella Norvegia prossima al circolo polare artico. Checco è in mezzo agli orsi polari per salvare il suo stipendio da lavoratore del settore pubblico italiano. Valeria, invece, è lì per salvare l'ambiente e, secondo una visione improntata all' ultra ecologismo, prima la coscienza degli uomini e poi tutto il mondo. Due mondi chiusi che comunicheranno fra loro soltanto grazie all'amore. Il breve filmato del loro primo incontro nel film del 2016 “Quo Vado?”, mostrato a metà del report presentato dal direttore del Centro Studi Confindustria Luca Paolazzi nella giornata “Le sostenibili carte dell'Italia”, rappresenta bene l’atteggiamento contraddittorio degli italiani verso un tema come la sostenibilità, che è e che sarà sempre più strategica per lo sviluppo delle imprese – nella manifattura e nei servizi – del nostro Paese.
O di qua o di là. O solo l’interesse individuale – in un egoismo reso socialmente accettabile dalla simpatia, dal divertimento e dalla identificazione dello spettatore - o soltanto l’ambiente quale centro di tutto. Un atteggiamento contraddittorio e in qualche maniera unidirezionale fotografato in una delle elaborazioni compiute dalla Ipsos per il Csc, che mostra come soltanto una minoranza degli italiani abbia una visione organica e complessiva di che cosa possa essere la sostenibilità, intesa nella sua natura profonda di combinato disposto che tiene insieme la tutela della natura e la integrazione della società, la fonte della innovazione tecnologica e la produzione della ricchezza, il punto di equilibrio fra lo sviluppo e la modernità e anche – in un tempo ormai postideologico – il generatore di senso.
Il 49% degli italiani ritiene che la priorità della sostenibilità sia solo e soltanto l'ambiente; il 10% evidenzia come l’unica ragione sia la ragione sociale; il 12% fa suo l’una e l’altra priorità, unendo le ragioni ambientali alle ragioni sociali. Una visione della sostenibilità rispettabile, in qualche maniera borghese e tradizionale, senz'altro novecentesca: ambiente e società, rispetto della natura e valorizzazione degli uomini. Che è già tanto. Ma che, oggi, non è tutto.
Soltanto l'8% degli italiani ritiene che la priorità per la sostenibilità sia la preoccupazione per la crescita e soltanto il 17% reputa che il fondamento della sostenibilità abbia come priorità l’interesse per lo sviluppo. Un italiano su quattro, dunque, intuisce che la sostenibilità è, ormai, diventata qualcosa di diverso. Qualcosa di più profondo. Qualcosa insieme di radicalmente immateriale e di squisitamente materiale. La sostenibilità è, ormai, il cuore di una forma di crescita trasversale, che ha perfino conquistato il capitalismo più hard. Basta ricordare la lettera, citata da Paolazzi, di Larry Fink, il fondatore di BlackRock (6 trilioni di dollari gestiti), agli amministratori delegati delle imprese partecipate: «Che ruolo giochiamo nella società? Come stiamo gestendo il nostro impatto sull'ambiente? Stiamo lavorando per creare una diversa forza lavoro? Ci stiamo adattando al cambiamento tecnologico? I nostri clienti, che sono i tuoi azionisti, chiedono non solo redditività ma anche prosperità e sicurezza per i loro concittadini». L'Italia, in questo, può giocare un ruolo fondamentale, tanto che 54 delle 2.400 B-Corp (le Benefit Corporation) mondiali appartengono al nostro Paese. Proprio per questo, è inevitabile – e proficuo – che la sostenibilità – intesa nel senso più ampio di sale della terra dello sviluppo antropologico, economico e culturale – divenga un elemento diffuso della coscienza di un numero sempre più crescente di italiani.
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