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Vendere libri coccolando gli autori

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«a tavola con»: LAvinia, Lorenza e Veronica MAnfrotto

Vendere libri coccolando gli autori

«Alla Scuola per Librai di Venezia, ci spiegarono che aprire la nostra libreria sarebbe stato un errore: troppo grande per un piccolo centro di provincia. Alla sera, in albergo, io mi misi a piangere». Lorenza Manfrotto è proprietaria con le sorelle Lavinia e Veronica della Libreria Palazzo Roberti.

A ripensarci, a Lorenza viene un’ombra sul volto, cancellata subito da una sonora risata: «Era il gennaio del 1998. Eravamo andate appunto alla Scuola per Librai, una istituzione, piene di fiducia e di voglia di imparare. Sennonché una della case history analizzate era proprio la nostra libreria di Bassano del Grappa che sarebbe stata inaugurata a marzo. Ogni giorno, sedute ai banchi, sentivamo illustrare le ragioni per le quali non avrebbe mai funzionato».

Lorenza è in jeans e camicia color panna, Lavinia ha un maglioncino rosso sopra una maglietta chiara, e Veronica indossa una maglia bianca e un semplice filo di perle al collo. La libreria, in teoria, era troppo grande. Il mercato di riferimento, la provincia di Vicenza, troppo piccolo. Per fortuna che in Italia, e in particolare in quel Nord-Est che ne costituisce una forma estrema, la teoria cede spesso il passo alla pratica e ciò che non può accadere invece accade.

Palazzo Roberti è composto da 1.700 metri quadrati, 700 dei quali dedicati all’esposizione dei libri. La libreria – nel 2007 selezionata fra le 50 più belle al mondo dalla International Booksellers Federation - occupa con i suoi 106mila volumi due dei tre piani del palazzo nobiliare incuneato nel centro di Bassano del Grappa. Il grande giardino, oggi invaso dalla luce della prima estate, è per qualunque autore il luogo perfetto per presentare il suo libro, non importa che sia di cucina o di geopolitica, di poesia o di economia applicata.

La storia delle sorelle Manfrotto incrocia tre elementi: la vicenda del laborioso e industrioso Nord-Est, quella cosa incredibile che è la bellezza racchiusa nei borghi del nostro Paese in cui ogni pietra e ogni angolo parlano – e Palazzo Roberti, con il suo profilo nobiliare settecentesco, ha molto da dire - e il mestiere matto e disperatissimo del libraio indipendente.

Sì, perché queste tre ragazze – Veronica e Lorenza bionde, Lavinia mora e nonostante le normali malinconie tutte e tre pronte a erompere ad ogni momento in una risata, che Dio abbia in gloria la gioia di vivere e lo spirito scanzonato del popolo veneto – sono figlie di Lino Manfrotto, fotografo con la licenza media conquistata faticosamente, specialista in matrimoni e comunioni trasformatosi nel 1970 in un imprenditore di successo con l’invenzione e l’industrializzazione del treppiede che ha preso il suo nome: il Manfrotto – alcuni esemplari si trovano in un angolo della libreria - è adoperato ancora oggi dai reporter e dai cineasti di tutto il mondo. «Nostro padre – racconta Veronica – e il suo socio Gilberto Battocchio, grande cultore di meccanica, fondarono nel 1970 la Lino Manfrotto + Co.. La sua intuizione riguardava la necessità, per i fotografi di allora, di avere un supporto leggero e maneggevole per le macchine fotografiche e per le luci. Negli anni Settanta e negli anni Ottanta, l’azienda si è sviluppata bene. Nel 1988, quando aveva ormai 350 dipendenti, venne venduta al Vitec Group, una società quotata a Londra».

Una storia classica da Nord-Est, nella versione vitale ma non sfrontata, appassionata ma non ossessiva: «Per tutti gli anni Settanta abbiamo vissuto in un appartamento di ottanta metri quadrati e con un bagno solo. Noi tre e nostro fratello Abramo dormivamo in due letti a castello. Non ho un ricordo di mio padre in vacanza con noi. Lui stava sempre a Bassano a lavorare. Mia madre Elena caricava la Peugeot familiare e partivamo verso il Sud Italia o la Spagna. Una volta, andando a Terragona, per il caldo i sedili di plastica mi si attaccarono alle cosce», dice Lavinia.

Gli “schei”, in questo caso, non hanno assunto tratti volgari e non sono diventati la concupiscenza del fare soldi per fare soldi per fare soldi. Il patrimonio familiare costruito da zero viene conservato, risparmiato e reinvestito in parte in Palazzo Roberti e nella dimora patrizia appartenuta alla famiglia dei Conti Vanzo, che raggiungiamo dalla libreria. Qui si trovano l’abitazione principale, dove vive la mamma Elena, e tre case satellite, una per ogni figlia, un orto per le verdure fresche, un uliveto e un campo di patate, un roseto e alberi da frutta disseminati nel parco.

La mamma Elena sta lavorando nell’orto. Noi ci sistemiamo nella casa di Lorenza, che prima di entrare ad armeggiare in cucina esprime il suo dispiacere alle sorelle perché una parte delle glicini che rendono la sala da pranzo un tutt’uno con il prato e il giardino non è fiorita. Entriamo nell’ombra della sala tagliata dalla luce. La tavola è già apparecchiata – il bianco dei formaggi freschi e il profumo delle verdure cotte - e il discorso torna subito alla libreria, il magnete e il cuore caldo della vita professionale di queste tre giovani signore.

Dice Veronica: «Nostro padre comprò Palazzo Roberti nel 1988. Fra una vicissitudine e l’altra, impiegò quasi dieci anni per liberarlo e per compiere i lavori di ristrutturazione. Il 28 marzo del 1998 aprì la nostra libreria». Continua Lorenza: «Lo sforzo fu enorme. Personale ed economico: soltanto di mobili spendemmo 600 milioni di lire. Li copiammo da Hatchard, una libreria di Londra, e li facemmo fare da un artigiano di Bassano del Grappa». Conclude Lavinia: «L’impianto elettrico e le lampade costarono altri 770 milioni».

Usare il denaro per riportare a nuova vita un palazzo del Settecento e soprattutto per fare le libraie. Quanto di meno speculativo si possa immaginare. Essere un libraio indipendente, appunto oggi mestiere matto e disperatissimo. Vendere libri. Cose pesanti. Che fanno magazzino, come nemmeno le aziende metalmeccaniche. Con la concorrenza delle catene commerciali. A loro volta cinte d’assedio da Amazon e dagli altri siti che praticano sconti metodici e ingenti. Nel caso delle sorelle Manfrotto, fare tutto questo in provincia. Avendo come controparte un popolo, quello italiano, che legge sempre meno: dunque il Lettore, non nel senso di Italo Calvino e Umberto Eco, ma nel senso della figura che riempie di notte i sogni e alimenta di giorno le ansie di ogni direttore commerciale di qualunque casa editrice italiana. Nel pieno di una mutazione del mercato che, secondo l’ufficio studi dell’Associazione Italiana Editori, ha portato il numero delle librerie italiane a scendere dalle 3.374 del 1989 alle 1.863 del 2016. Un contesto in cui la libreria indipendente è andata in crisi come soggetto economico, culturale e sociale: basti pensare che, nel periodo compreso fra il 2010 e il 2016, le librerie a conduzione familiare sono calate da 1.115 a 811.

Tutte queste statistiche si trasfondono nella preoccupazione provata e nell’impegno profuso da Lorenza, Veronica e Lavinia quando, nel 2008, la Grande Crisi ha colpito il nostro Paese, anello più debole di una Europa già debole. «Nel 2008 – ricorda Veronica – fatturavamo 2,3 milioni di euro. Iniziò un lento declino, che ci ha portato nel 2013 ad andare sotto i 2 milioni di euro. Soltanto quell’anno ci siamo trovati in vera difficoltà. La libreria ha sempre avuto un equilibrio finanziario: ha pagato i debiti e i dodici stipendi di chi ci lavora, inclusi i nostri. Non ha mai realizzato guadagni netti. Ma ha sempre funzionato. Quell’anno, non andò così. È allora che, per ricominciare a crescere gradualmente fino ai 2,4 milioni di euro di ricavi del 2017, abbiamo iniziato a intensificare le attività collaterali e le presentazioni dei libri con gli autori».

Le attività collaterali sono i laboratori di cucina e i laboratori per i bambini. Quello che colpisce nelle Manfrotto è l’assenza di intellettualismo («siamo ragazze semplici, sarà che nostro padre è stato bocciato sia in prima che in seconda che in terza media, ma lui non è mai stato accanito con il nostro rendimento scolastico», spiega Lorenza) e il pragmatismo da profondo Nord-Est. Iniziamo a mangiare le mezzemaniche – la pasta è di Gragnano – con gli asparagi bianchi di Bassano, uno dei prodotti Dop più deliziosi della cucina italiana. E, loro, con semplicità spiegano come è nata l’idea di ospitare a cena gli scrittori: «A un certo punto ci siamo rese conto che, per andare fuori al ristorante con un autore, i funzionari della casa editrice e noi tre avremmo speso una cifra esorbitante. Ci siamo dette: perché non farlo a casa? E, così, ci siamo organizzate».

Le Manfrotto, libraie a Bassano Del Grappa con la stessa dedizione al lavoro e il medesimo entusiasmo dei Benetton a Ponzano Veneto e dei Del Vecchio ad Agordo, si sono organizzate: Veronica va a prendere l’autore, Lavinia lo presenta al pubblico e Lorenza cucina. Dal 2013, l’anno più difficile dell’amore difficile di queste giovani signore italiane per i libri, gli incontri con gli autori sono stati una settantina all’anno. Qui sono venuti l’israeliano David Grossman, il francese Daniel Pennac, il cileno Luis Sepúlveda, l’inglese Jonathan Coe, la belga Amélie Nothomb. «La cena a casa con gli autori è diventata importantissima, toglie anonimato, permette a tutti di lasciarsi andare, fa cadere le maschere, avvicina gli animi», osserva Lavinia.

Nella particolare esperienza che è l’essere italiani, la Storia e la quotidianità come la memoria e la percezione si sovrappongono, si mescolano e si fondono. Mentre mi verso un bicchiere di acqua, il cono luminoso che entra da fuori mi ricorda i fasci di luce che tagliano le ombre nei quadri scuri – non oscuri - di Jacopo da Ponte, detto Jacopo Bassano. Soltanto che non siamo nel Cinquecento della Repubblica di Venezia. E, d’improvviso, Lavinia erompe: «Qualche settimana fa, abbiamo fatto una festa per i venti anni della libreria. Avremmo voluto collocare fuori quattro stendardi. E avremmo dovuto pagare quella che tecnicamente si chiama tassa di occupazione aerea, ma che noi chiamiamo la tassa comunale sull’ombra». Lo dice così. Come se parlasse della pioggia o del sole. E meno male che, poi, nell’affanno senza riposo che caratterizza le donne italiane – queste sono pure mogli e mamme, dieci figli in tutto, cinque femmine e cinque maschi – le sorelle Manfrotto non si fermano, camminano, macinano. «Un poco di formaggio?». E lì, davanti a me, ricotta di bufala e robiola, stracchino e asiago. Più piselli – bisi in veneto – con cipolle e olio.

Alla fine, con il caffè Lorenza porta in tavola meringhe fatte da lei, con panna e fragole. E ti viene da pensare che se Philip Roth e James Ellroy sapessero quanto sono buone uscirebbero di casa a New York e a Los Angeles, andrebbero a prendere un aereo, atterrerebbero a Milano Malpensa, con un taxi raggiungerebbero Bassano del Grappa per presentare qui i loro ultimi libri, assaggiare le meringhe delle sorelle Manfrotto e, poi, farsi coccolare da loro.

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