Il commercio e gli investimenti internazionali sono, insieme ai flussi migratori, la principale manifestazione della globalizzazione. Crescita atona, precarietà del lavoro, concorrenza sleale, perdita di sovranità nazionale hanno secondo alcuni una sola soluzione: innalzare barriere sia tariffarie, sia regolamentari, e opporsi a nuovi accordi di libero scambio, anche quelli conclusi tra alleati dalla consolidate credenziali democratiche e molto attenti alla difesa dei diritti dei lavoratori e alla tutela dell’ambiente.
La realtà è più complessa, non solo perché se c’è un tema su cui gli esperti (certo denigrati, ma pur sempre autorevoli) sono d’accordo, sulla base dell’evidenza, è proprio che gli scambi di beni, servizi e capitali promuovono crescita e benessere (nonché pace). Non è affatto vero che il sentimento anti-globalizzazione è pervasivo ovunque e che quindi non valga la pena combatterlo. Dopo la crisi del 2009, la percentuale di europei che vedono la globalizzazione come un’opportunità di sviluppo economico è calata fino al 2012, ma secondo l’Eurobarometro del 2016 ha poi recuperato quasi tutto il terreno, soprattutto nei Paesi del Nord. Anche l’ottantanovesimo sondaggio, realizzato a marzo 2018, mostra che generalmente gli europei si fidano più delle istituzioni comunitarie (il cui mandato originario e ancor oggi principale è proprio in materia commerciale) che di quelle nazionali. Risultati abbastanza simili affiorano dalle indagini periodiche del Pew Research Center negli Stati Uniti e – soprattutto – nelle aree meno sviluppate del pianeta, dove l’opinione pubblica vede nel commercio una chiave per la crescita e un’alternativa all’emigrazione economica.
Protezionismo non ineluttabile
Non c’è insomma nulla di ineluttabile nell’ondata di protezionismo, ma chi vi si oppone deve essere cosciente degli effetti redistributivi dell’apertura dei mercati. I benefici della liberalizzazione sono diffusi (siamo tutti contenti se il prezzo dei nostri smartphone è diminuito da quando l’Asia è diventata la fabbrica del mondo), mentre i suoi costi sono concentrati in determinate categorie (gli operai occidentali delle telecomunicazioni che hanno perso il proprio posto di lavoro). Molti studi hanno messo in evidenza le caratteristiche socio-demografiche che influenzano la percezione dell’economia aperta. Giocano in particolare l’età (i giovani sono più globalist), l’istruzione (chi studia o è laureato è favorevole) e la vulnerabilità economica (chi ha spesso difficoltà a pagare le bollette è scettico sulle virtù della globalizzazione). Senza dimenticare che chi ha molto da perdere (il lavoro, le rendite) è motivato a mobilizzarsi, mentre i consumatori che sarebbero lesi dal protezionismo non ne percepiscono abbastanza l’impatto negativo.
Le false verità sul libero scambio
Come possono fare i progressisti per riconquistare l’egemonia culturale che attualmente sembra fermamente nelle mani dei reazionari? La prima cosa è lottare contro le molte false verità sugli scambi internazionali. Per limitarsi alle polemiche più recenti sugli accordi di libero scambio, quelli che l’Europa ha firmato negli ultimi anni hanno funzionato: con la Corea del Sud, sono aumentati sia l’export italiano (da 3 miliardi di dollari nel 2009 a oltre 5,3 nel 2017), sia il numero di prodotti venduti (da 2450 a 2711 nel 2015), favorendo soprattutto le Pmi, che altrimenti ben difficilmente si sarebbero avventurate nel Paese del Mattino Calmo. Il Ceta con il Canada permetterà di tutelare i prodotti tipici italiani e l’alternativa alla ratifica è lo status quo, ovvero la protezione del marchio e non dell’indicazione geografica d’origine – non un mondo fiabesco in cui non si vende l’Asiago del Wisconsin o le mozzarelle dell’Ontario.
“La globalizzazione rende impossibile coniugare mercati aperti, sovranità nazionale e democrazia”
Senza l’Europa l’Italia ha poche armi
In secondo luogo, va sottolineato con forza che, senza l’Europa, l’Italia ha poche frecce al suo arco per contrastare l’altrui mercantilismo, che sia quello americano con le misure tariffarie imposte quest’anno, o quello strisciante della Cina e di molte economie economie emergenti (Russia compresa) che rendono difficile l’operatività delle imprese straniere. I dazi non proteggono e nei prodotti esportati da altri Paesi europei c’è del valore aggiunto nostrano – si pensi per esempio alle auto e moto tedesche piene di componenti italiani.
Ma non si può neanche fare finta di nulla e riproporre le ricette degli anni 90. Come ha ben mostrato l’economista di Harvard Dani Rodrik, la globalizzazione rende impossibile coniugare mercati aperti, sovranità nazionale e democrazia. Prima della crisi sembrava che l’elettorato fosse disposto a rinunciare alla sovranità, ora a essere a rischio è l’apertura. Se non vogliamo che alla fine sia la democrazia la variabile dipendente del trilemma, è urgente riflettere come offrire maggiore protezione a chi si sente alla mercé dei mercati (e delle tecnologie disruptive, che sono una forza autonoma, ma che della globalizzazione si nutrono).
Più collaborazione internazionale
Compensare finanziariamente chi ha perso o non trova lavoro ha forse un suo appeal, ma per la maggior parte degli individui non è equivalente, soprattutto dal punto di vista del riconoscimento sociale, a essere occupato. Per questo è necessario intervenire sulla formazione, la mobilità e la rivitalizzazione delle aree in crisi. Le risorse finanziarie sono consistenti e rendono prioritaria la lotta contro gli abusi dell’ottimizzazione fiscale delle imprese multinazionali, un risultato che si può ottenere solo con la collaborazione internazionale. Alla stessa stregua, vanno contrastati dumping ambientale e sociale, comportamenti non-cooperativi di cui si macchiano i Paesi che non aderiscono e non implementano gli accordi internazionali. Avanzare in queste direzioni non è certo agevole, ma appare l’unica strada per ritrovare l’equilibrio tra globalizzazione e democrazia. L’interesse nazionale non è certo alimentare la paura, che condannerebbe l’Italia a perdere rilevanza politica e sovranità economica.
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