A due anni e due mesi dal referendum sulla Brexit, a sette mesi dalla data formale dell’uscita di Londra dall’Unione europea, a poche settimane dal vertice che dovrebbe sancire l’intesa euro-britannica che non c’è, a Londra può accadere ancora di tutto. Anno zero per la Brexit, o poco più. La Gran Bretagna che gongola in queste ore per le presunte aperture tedesche dietro le quinte negoziali, ha davanti a sé scenari diversi, ma tutti tumultuosi.
Le opzioni sul tavolo
In questo scorcio di 2018 la premier Theresa May può cadere vittima dell’imboscata degli eurofobi ed essere costretta a lasciare
la guida del Paese e del partito all’ex ministro degli Esteri Boris Johnson; il Regno Unito può andare a elezioni anticipate
con chance di vittoria per il radical-laburista Jeremy Corbyn; o può, al contrario, assistere all’implosione del Labour sotto
la spinta dei moderati, prologo alla nascita di una nuova terza forza insieme a LibDem e a conservatori “illuminati” e scissionisti;
il parlamento britannico può rigettare l’accordo Londra-Bruxelles – se mai sarà trovato – spianando la strada a un nuovo referendum
che i brexiters rischiano fortemente di perdere; il “no” di Westminster potrebbe, al contrario, portare il Paese a una Brexit senza rete,
uscita scomposta del Regno Unito dall’Unione. Può, infine, anche accadere che gli sherpa britannici trovino un’intesa di massima con Bruxelles e che House of Commons e House of Lords l’approvino, sancendo un distacco
(molto relativamente) morbido della Gran Bretagna dall’Ue. Si tratterebbe, in questo caso, di un’intesa vaga e minimalista,
buona per fare dire a Londra di aver lasciato l’Ue, rinviando al periodo di transizione già concordato dai negoziatori gli
aspetti sostanziali e spigolosi delle future relazioni euro-britanniche.
Immobilismo apparente
Tutto resta possibile. Peggio: tutto resta probabile, immagine di un immobilismo, in realtà, solo apparente. Dal giugno 2016
a oggi il ritorno degli eurofili o, per meglio dire, dei meno euroscettici, è stato lento, ma costante sia fra i conservatori
sia fra i laburisti e, quel che più conta, il dubbio s’è insinuato in nuovi strati della pubblica opinione. La contrapposizione
ideologica “Europa sì-Europa no” pare diluirsi nell’occhieggiante consapevolezza, per i più, che il progetto comune, nel mondo
di oggi, non è una scelta, ma semplicemente una condizione di vita.
Promesse non mantenute
I proclami che la stessa May aveva fatto suoi nelle settimane successive al referendum si sono svuotati di contenuti. È la
prima a non credere – riteniamo – che «nessun accordo sia meglio di un cattivo accordo» conscia com’è di non poter rimediare,
nel migliore dei casi, altro che una piccola frazione di quanto promesso prima del voto dagli eurofobi, categoria alla quale
la signora premier non appartiene, ma che la tiene costantemente sotto schiaffo. La sua offerta alla Ue è stata bocciata dagli
eurofobi («Londra marcia su Bruxelles con un carrarmato che sventola bandiera bianca» ha scritto Boris Johnson) nelle stesse
ore in cui Michel Barnier, negoziatore per Bruxelles, lasciava margini esigui di intesa, denunciando l’eterna volontà britannica
di cogliere fior da fiore nel testo unico del mercato interno. In questo quadro trovano nuovo vigore le trame Tory per un
golpe interno al partito e disarcionare Theresa May, ma le falangi del “no” all’Ue non esercitano il carisma del passato,
né, crediamo, abbiano la capacità di mobilitare un consenso oggi più incline al pragmatismo.
Non sappiamo come questa infinita mano di poker fra politici e fra politici ed elettori andrà a finire. Gli scenari sopra
elencati – e ne mancano altri, più articolati – sono tutti probabili, ma resta la certezza che la Brexit, sia nell’eventualità
che accada sia nell’eventualità che non accada, sta avendo la forza di mutare per sempre la scena politica del Paese meno
eurofilo dell’Unione.
Scelta difficile
La collocazione in Europa, intesa come assetto istituzionale e dimensione culturale, è un calice amarissimo anche per la storicamente
scettica, Gran Bretagna, anche per l’indipendente Gran Bretagna, “libera”, lo ricordiamo, dai lacci dell’euro e di Schengen.
Molto più amaro di quanto immaginassero i politici e i cittadini di entrambi gli schieramenti che si ritrovano esausti, confusi
e ora anche impauriti, avvertendo i segnali della non Europa: per Ubs la sola prospettiva di secessione dall’Ue è già costata
al Regno Unito due punti di mancata crescita del Pil e un balzo significativo dell’inflazione. Ignorano, i cittadini, quale
sarà il loro destino prossimo venturo, consci che la battaglia d’Europa continua a sconquassare schieramenti vecchi e nuovi,
insinuandosi nel tessuto profondo del Paese, occupandone ogni anfratto, al di là di qualsiasi originaria valutazione. Ne valeva
la pena? Se questo interrogativo fosse posto oggi al corpo elettorale il “no” – riteniamo – sarebbe in netta risalita con
lo sbriciolarsi del mito di un’arcadia post-europea creata da dosi massicce e incontrollate di fake news.
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