Donald Trump? No, William Shakespeare non va bene per rappresentarlo. Lui assomiglia ad un personaggio di Tom Wolfe. Shakespeare va bene per Richard Nixon. Matteo Salvini? Per lui funziona il melodramma di Giuseppe Verdi. L'establishment italiano pensa sempre di essere nel “Gattopardo”, in cui tutto cambia perché nulla cambi. Ma, davvero, questa volta la regola italiana potrebbe avere la sua eccezione.
Niall Ferguson, uno dei maggiori storici del mondo anglosassone (scozzese di nascita, inglese di formazione, a lungo ad Harvard e adesso a Stanford), accetta a Cernobbio - in una lunga pausa fra una sessione e l'altra del workshop Ambrosetti - il gioco intellettuale dell'associazione fra letteratura e politica, letteratura e storia. Il suo ultimo saggio, pubblicato in Italia da Mondadori, è “La Piazza e la Torre. Le reti, le gerarchie e la lotta per il potere. Una storia globale”. In questo libro Ferguson rappresenta il conflitto fra le élite – la torre – e la piazza – il demos, nella sua versione che tende alla demagogia e ai populismi - con l'oscuro volgo che questa volta – per piegare Alessandro Manzoni alla modernità più estrema – nome ha, grazie alle reti e alle tecnologie.
«Il passaggio storico è così delicato – dice Ferguson – che la letteratura può essere utile per coglierne la complessità». E, partendo dalla chiave della letteratura, è possibile ricostruire le analogie e le differenze fra i populismi degli Stati Uniti e dell'Europa, con i primi circoscritti e contenuti dalle strutture istituzionali e sociali e dalle nuove élite – per esempio della Silicon Valley - e con i secondi dotati di una forza eversiva direttamente proporzionale alla debolezza delle strutture istituzionali e sociali del Vecchio – appunto, Vecchio – Continente.
«No, Trump non è un personaggio shakespeariano – dice Ferguson – Richard Nixon, con la sua solitudine e il suo destino votato all'autodistruzione, poteva essere un personaggio shakespeariano. In Donald Trump non c'è grandezza. In lui c'è la corsa folle e forsennata dei personaggi di Tom Wolfe, che in fondo, con tutta la loro ricchezza e la loro sete di potere, sono anche mediocri». Al di là di quale possa essere il calco letterario valido per Trump, quanto sta capitando nel mondo è ascrivibile al “teatro del populismo”. Un teatro che, però, ha trame diverse, a seconda che il set della rappresentazione corale siano gli Stati Uniti o l'Europa, nello specifico l'Italia.
«Negli Stati Uniti – evidenzia Ferguson – il populismo è fortissimo ed è amplificato, nel volume e nella pervasività, dai social media. Questa è la cifra della nostra epoca. Va, però, sottolineato come negli Stati Uniti vi sia una doppia forma di contrasto a questo fenomeno». Prima di tutto, secondo lo storico scozzese, l'amministrazione Trump in particolare e il trumpismo in generale si sono misurate, si misurano e si misureranno con un legislativo solido e con lobby solidissime, con la struttura federale e con grandi città in cui la cultura politica sia democratica sia repubblicana è meno permeabile – in confronto all'America profonda - ai messaggi elementari, martellanti e destrutturanti del nuovo populismo. In secondo luogo, l'America ha la forza di generare nuove forme di élite.
È vero che le élite classiche americane non hanno capito – «sono state cieche» – di fronte al trumpismo. Ma è altrettanto vero che, alle classi dirigenti tradizionali generate dalla cultura Wasp e dalle università della Ivy League, dalle manifatture novecentesche del Midwest e dalla finanza di New York, dalla politica vecchia scuola e dal lobbysmo trasversale di Washington, si sono affiancate – negli ultimi vent'anni – le nuove élite della Silicon Valley, osservate da vicino da Ferguson che, dopo un lungo periodo di insegnamento all'università di Harvard, è ora in California, a Stanford.
«Negli Stati Uniti – spiega – c'è dunque una forma articolata di contenimento. In Europa, invece, questo manca. Nel senso che, rispetto al caso americano, la debolezza delle élite europee è maggiore. E la fragilità delle istituzioni anche». Per questa ragione, in Europa la diffusione del fenomeno populista incontra minori resistenze. «Basta osservare la carta stampata mainstream. La carata stampata mainstream è una delle espressioni dell'establishment classico. E, negli Stati Uniti, nonostante tutto Donald Trump è messo in difficoltà da essa, ci si misura, prova a blandirla, ci litiga furiosamente», nota lo storico scozzese. Questa forma di dialettica continua – al limite del parossismo – non si verifica nella stessa maniera in Europa. «Ho l'impressione – dice Ferguson – che ad esempio un leader come Matteo Salvini, che usa tantissimo e in maniera efficace i social media, non senta la necessità e il bisogno di misurarsi in maniera così dura con i giornali italiani. Tende ad ignorarli. Ma, questo, accade perché in generale l'establishment europeo, che possiede i giornali tradizionali, ha meno forza e meno influenza».
Nel teatro del populismo, Matteo Salvini potrebbe appartenere al melodramma verdiano, sintesi dei vizi e delle virtù, dei talenti e delle manchevolezze, della commedia e della tragedia italiana con nessuna delle due che prevale veramente, fino in fondo, sull'altra. O, almeno, questo – secondo Ferguson – potrebbe essere il desiderio di quella parte establishment che si raduna a Cernobbio fin dai tempi, ormai mitizzati, dell'arrivo in elicottero dell'Avvocato Gianni Agnelli. «In fondo – riflette Ferguson – le élite italiane hanno come loro libro di riferimento il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa». Peraltro, la continuità di fondo – o, almeno, la sua simultaneità con i fenomeni di rottura – potrebbe essere confermata – nella composizione dell'esecutivo attuale – dalla compresenza fra forze populiste e tecnocrazia: «Del vostro governo, fanno parte per esempio il ministro dell'Economia Giovanni Tria e il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi». A proposito di continuità reale – nella discontinuità apparente – va ricordato come, nel Gattopardo, il nipote del Principe di Salina, Tancredi, pronunci la famosa frase: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Su questo, ripensandoci bene, a Ferguson viene un piccolo, elementare dubbio: «Poniamo che quella sia anche la regola storica italiana. C'è, però, sempre una eccezione alla regola…».
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