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i festeggiamenti gialloverdi

Dai Perón alla Manovra del popolo: l’arte (politica) di affacciarsi al balcone

In politica la mistica dei gesti è tutto. Senza la scarpa battuta sul tavolo da Kruscev, il bacio tra Breznev e Honecker e i ragazzi seduti sul muro di Berlino, avremmo senza dubbio visto un altro Novecento. L’Italia ai tempi del sovranismo e di sua maestà l’algoritmo rispolvera un altro classico della gestualità politica: il balcone. Su quello di Palazzo Chigi si sono affacciati il vicepremier Di Maio, i ministri Toninelli, Bonafede, Fraccaro, Lezzi, Bonisoli e altri per festeggiare la Manovra del Popolo. C’è qualcosa di nuovo nell’epifania gialloverde della notte tra giovedì e venerdì 28 settembre. Anzi d’antico.

Tra il Palazzo d’Inverno e l’occupazione al liceo
Un po’ presa del Palazzo d’Inverno da parte di quelli che fino all’altro ieri l’opinione pubblica - scomodando Kavafis e Coetzee - definiva «barbari», un po’ occupazione di liceo, roba di quando in aula si esultava per i «prof.» rimasti fuori dai cancelli.

Gesto spontaneo all’apparenza, eppure chissà per quanto tempo studiato nelle segrete stanze della Casaleggio Associati, perché in politica i gesti non sono mai casuali, dai predellini ai discorsi strappati sul palco di un comizio. E il gesto (politico) di affacciarsi al balcone è addirittura arte. Salutare la folla (o meglio: il popolo) dal balcone significa scavalcare a pie’ pari canali ufficiali di comunicazione, mediazioni, corpi intermedi della democrazia, cercare il plebiscito. Il balcone è un accessorio imprescindibile dei populismi, a prescindere dai loro colori politici.

I papi, i re e il «Generale»
Un’usanza presa in prestito da clero e nobiltà, perché i primi politici ad affacciarsi furono papi e reali: il balcone della Basilica di San Pietro e la finestra del Palazzo Apostolico sono ancora oggi il pulpito del mondo cristiano, mentre il balcone di Buckingham Palace e i bagni di folla cui si sottopongono i Giorgi, gli Edoardi e le Elisabette d’Inghilterra rappresentano l’identità stessa della monarchia britannica. Anche il Risorgimento italiano ebbe i suoi balconi, per la precisione quelli dai quali si affacciò Giuseppe Garibaldi: il più famoso è a Napoli, sul Palazzo Doria d’Angri dal quale l’eroe dei due mondi annunciò l’annessione del Regno Borbonico alla nazione neonata, ma se ne trovano anche a Rieti e a Forlì. Se ne contano quante sono le proverbiali case in cui il «Generale» dormì.

Un balcone che suona latinoamericano
Certo, i più sentendo parlare di balconi e politica andranno subito con la memoria a quel balcone che, almeno per noi italiani, è il più famoso di tutti, a «quando c’era Lui» e alla celebre battuta di Curzio Malaparte («Quanti guai si sarebbero risparmiati se Mussolini, invece di parlare dal balcone di Palazzo Venezia, avesse parlato dal terrazzino di Palazzo Vecchio»). Ma il balcone dal quale si sporge l’intelligentia pentastellata sembra avere davvero poco da spartire con Palazzo Venezia, il Duce e le reni da spezzare alla Grecia: suona più latinoamericano, come gli abbracci di popolo cui mai si sottrassero i coniugi Juan Domingo ed Evita Perón o Fidel Castro, affacciato con i suoi barbudos al terrazzino azzurro della palazzina coloniale che domina la piazza di Santiago.

O ancora Julian Assange, fondatore di WikiLeaks braccato dalla giustizia che, da quando vive da esule nell’Ambasciata ecuadoriana a Londra, per parlare alla stampa si affaccia proprio da un balcone. Questa è la presa del potere da parte di chi pretende di non confondersi col potere. E fa ancora più rumore, nell’austera cornice architettonica di Palazzo Chigi. Che da quando è sede del Consiglio dei ministri al massimo si era concesso i selfie col gelato di Matteo Renzi.

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